IL DŌJŌ 道場
eventskarate 19 dicembre 2013
fonte: www.unionescuolekaratewadoryu.it
F.Comparelli
Il termine giapponese ‘dōjō’ è composto da due kanji: 道 (dō), la ‘via’ e 場(jō), ‘luogo’. Si tratta quindi del ‘luogo’ dove si apprende a percorrere, a studiare, a vivere la Via.
La rivoluzione culturale e ideologica che ha investito il karate degli inizi del XX secolo è probabilmente per noi occidentali (poco informati sulla storia e sulla cultura cinese e giapponese in generale, e nella fattispecie sugli enormi cambiamenti prodotti dalla riforma Meiji), di assai difficile comprensione. Tuttavia, è un fatto che pur nell’incerta documentazione riguardante il karate (空手 ‘mano vuota’), o meglio il toudi (唐手 ‘mano cinese’) okinawense ottocentesco, di una cosa possiamo essere sicuri: non si praticava in un dōjō come potremmo immaginare noi. Gli allenamenti si svolgevano di notte, in segreto (Funakoshi e Azato), a casa del maestro o nel suo giardino (spesso attrezzato per l’occasione), o comunque all’aperto, in luoghi lontani da sguardi indiscreti. La testimonianza del maestro Funakoshi è illuminante: nella mia fanciullezza, durante i primi anni dell’era Meiji, il karate fu proibito dal Governo. Non poteva essere praticato legalmente e naturalmente non c’erano dōjō di karate. Né c’era qualche istruttore professionista. Coloro che si sapeva essere esperti accettavano pochi allievi in segreto, ma la loro sopravvivenza dipendeva da un lavoro senza alcun rapporto col karate. E coloro che riuscivano ad essere accettati come studenti lo erano per il loro interesse nell’arte. All’inizio, per esempio, io l’unico studente del maestro Azato e uno dei pochissimi che studiavano presso il maestro Itosu (cfr. Funakoshi Gichin, Karate Dō il mio stile di vita, Edizioni Mediterranee 1987 p. 42), e ancora: Notte dopo notte, spesso nel cortile posteriore della casa di Azato, mentre il maestro assisteva, io praticavo un kata ripetutamente, settimana dopo settimana, qualche volta mese dopo mese, finché lo avessi conosciuto alla perfezione per la soddisfazione del mio maestro. Questa costante ripetizione di un solo kata era estenuante, spesso esasperante ed a volte umiliante (ibid. p. 21). Le cose dovettero cambiare, di molto, negli anni immediatamente successivi alla riforma Meiji (1868), quando Okinawa divenne una prefettura giapponese, la classe dei samurai o degli equivalenti okinawensi venne abolita e l’ultimo re di Okinawa, Shō Tai, abdicò formalmente l’11 marzo 1879, lasciò il suo palazzo il 30 marzo e infine, con qualche ritardo, partì per Tokio da Okinawa il 27 maggio, insieme a 96 cortigiani (G. Kerr, Okinawa: The History of an Island People, Tuttle 2000, p. 383), tra cui due famosi allievi del maestro Matsumura, Azato Yasutsune e Kyan Chofu insieme al figlioletto di quest’ultimo, il futuro grande maestro di Kyan Chutoku). Grazie all’infaticabile opera di uno dei più importanti maestri del XIX secolo, Itosu Anko, il toudi uscì allo scoperto e venne introdotto come materia d’insegnamento nelle scuole pubbliche di Okinawa (la lettera indirizzata da Itosu nel 1908 al ministero della pubblica istruzione giapponese è uno dei documenti più ‘antichi’ a nostra disposizione sul karate). A quest’epoca, il dōjō ancora non esisteva anzi i maestri quando dovevano allenarsi insieme lo facevano nel giardino di casa, come nel caso del maestro Mabuni che, dopo la morte di Itosu e di Higaonna aveva messo a disposizione il giardino di casa per la pratica insieme agli altri ancora giovani esperti. Di lì a poco, tuttavia, con il diffondersi a macchia d’olio del karate e con il conseguente aumentare del numero degli allievi sia ad Okinawa sia in Giappone, la ricerca di un luogo ‘ufficiale’ dove poter praticare divenne una improrogabile necessità. Come che sia, nel dōjō giapponese si entra dalla parte opposta al lato considerato frontale (shomen), il kamiza (上座 posto d’onore, o più in alto: in cinese anche ‘padri fondatori’), è il luogo dove si trova il kamidana (un piccolo altare, spesso con l’immagine del fondatore o del simbolo dello stile). La parte da cui si entra si chiama shimoza (下座, lato inferiore). Il lato destro, guardando avanti, si chiama joseki, il sinistro shimoseki. Il saluto iniziale e finale, di solito (ma con alcune varianti da scuola a scuola soprattutto nel Giappone feudale), si svolge in questa maniera: il maestro davanti il kamiza, i più anziani schierato dal lato joseki al lato shimoseki. Ora, nella filosofia taoista il lato sud (shimoza) è associato, tra i cinque elementi, al fuoco, che a sua volta è associato all’intelletto, all’etichetta, e all’interazione umana. Fuor di metafora filosofica, è il nostro intelletto, il nostro desiderio di imparare che ci conduce all’ingresso del dōjō. Il lato destro del dōjō è associato al legno, e ai valori di carità e virtù. È il luogo, si ricordi, dove si schierano gli allievi anziani, che devono essere quindi un esempio dei valori che si raggiungono all’interno del dōjō dopo anni di pratica. Il lato nord è associato con l’acqua e l’acqua con la saggezza, e si ricordi che il concetto stesso di ryu (流scuola), ha a che vedere con lo scorrere della corrente di un fiume, lo scorrere della tradizione da una generazione all’altra. Il lato sinistro nella cosmologia taoista è associato con l’elemento metallo, e rappresenta la rettitudine, o probità. Essendo il luogo in cui si svolge l’attività dei nuovi membri, è dunque proprio dalla ‘rettitudine morale’ che inizia l’allenamento all’ingresso del dōjō. Ma il luogo più importante è quello centrale (anch’esso chiamato embu-jo). Qui si dimostra quello che si sa fare veramente; è un luogo dove si ammettono scuse o giustificazioni. Il suo elemento è la terra, ed è associato, e non poteva essere altrimenti, all’onestà. Anche se oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, il dōjō è una delle tante sale di una ‘palestra’, la sua funzione trae inspirazione dal tempio. Il termine stesso dōjō è di derivazione buddista indica i riti buddisti o taoista e il luogo in cui essi venivano celebrati. La stanza in cui si fa meditazione zen è un dōjō. Il posto in cui si svolgono gli esercizi marziali (enbu 演武) si chiama enbu-jo. Il luogo in cui si svolgono le competizioni marziali si chiama shiai-jo. Si ci si sta allenando all’aperto o in qualche luogo non specificamente dedicato all’allenamento marziale, allora ci si trova in un keiko-jo, un luogo di pratica generico. Il suffiso –do in dica una ‘via’, una disciplina o un’arte. Un dōjō, dunque, è un luogo in cui si segue la Via. Ovviamente, storicamente, nel mondo delle arti marziali il luogo d’allenamento non sempre è stato in una confortevole stanza, per vari motivi: 1) non era sempre economicamente possibile che i clan potessero permettersi queste strutture; 2) allenarsi in una stanza, su di un pavimento di legno levigato, non è come combattere in battaglia.
Nonostante dunque le enormi differenze che intercorrono tra un dōjō classico giapponese e la nostra ‘palestra’, ricordiamoci almeno l’VIII dei 20 Shoto nijukun del Maestro Funakoshi: Il Karate non si vive solo nel dōjō 道場のみの空手と思ふな dōjō nomino karate to omou na, si vive soprattutto nel nostro cuore.