Il kata dall’epos al melodramma
eventskarate 08 novembre 2012
Sergio Roedner
Nato come “rappresentazione stenografica” di un combattimento reale e divenuto presto testo classico per la trasmissione dell’arte, il kata di karate ha subito
una profonda trasformazione nel periodo storico in cui la nostra disciplina si è evoluta (o, a seconda della prospettiva) involuta da arte marziale dapprima in esercizio ginnico finalizzato all’irrobustimento del corpo, e successivamente in sport.
La prima data cruciale è il 1901, quando il M°Itosu introdusse il karate nel programma scolastico di Okinawa e per facilitarne l’apprendimento creò i cinque Pinan, estrapolandoli dai kata superiori; la seconda è successiva alla seconda guerra mondiale ed alla morte di Gichin Funakoshi (1957) e coincide col periodo in cui, sotto l’abile regia del M° Nakayama e col contributo fondamentale della J.K.A., il karate divenne una disciplina sportiva ed agonistica diffusa ed apprezzata in tutto il mondo.
In quel momento (decisione fatale) qualcuno decise che le specialità nelle quali gli atleti avrebbero gareggiato sarebbero state due: il kumite e, appunto, il kata. In quell’anno si tennero i primi campionati della JKA: Kanazawa vinse nel kata e Shoji nel kumite. Da allora tutti i nomi importanti del Gotha del karate shotokan giapponese avrebbero figurato nel palmares della competizione: il 1962 fu l’anno magico di Hiroshi Shirai, che conquistò il titolo di grandmaster vincendo in entrambe le specialità. Tre anni dopo sarebbe partito per Milano per iniziare con gli entusiasti allievi italiani una lunga avventura di cui ci auguriamo sia ancora molto lontana la conclusione.
Strada facendo, dicevo all’inizio, il kata è profondamente cambiato, ma fino a poco tempo fa tale cambiamento era documentato solo dalle foto dei libri, dai ricordi più o meno nitidi dei praticanti di lunga data e dagli sgranati filmini in super-otto trasferiti su videocassette negli anni ’70. Ora i prodigi dell’informatica e la rivoluzione democratica prodotta da Internet nel mondo dell’informazione consentono a tutti gli appassionati di studiare passo passo questa evoluzione, traendone le debite conclusioni.
Chi ha conosciuto il M°Kase sa che i suoi kata concedevano ben poco al gusto estetico degli spettatori ma trasmettevano una sensazione di rara efficacia e realtà. Il suo Jion, eseguito sulla superficie irregolare di un prato e rivista con emozione su Youtube, conferma in pieno questo mio ricordo. Il busto leggermente inclinato in avanti, il corpo che si alza e si abbassa negli spostamenti, la potenza terrificante di ogni tecnica: è il kata di un maestro che non ha mai partecipato ad una competizione ma che era preparato ad usare la propria arte per sopravvivere.
Gli anni ’70 segnano una svolta importante: anche per effetto dell’opera di proselitismo e divulgazione degli istruttori inviati a colonizzare il resto del mondo (Enoeda, Shirai, Kase, Kanazawa e molti altri), l’insegnamento del kata si perfeziona e si raffina. Shirai, temibilissimo combattente, era ed è anche un raffinato esteta e sotto la sua guida la “scuola italiana”, dopo aver prodotto micidiali macchine da guerra come Parisi, Falconi, Capuana e Demichelis, ha successivamente dimostrato la propria eccellenza soprattutto nel kata, costringendo tutti gli altri, giapponesi compresi, ad adeguarsi.
In questo periodo anche nella JKA, pur giustamente apprezzata per l’eclettismo dei suoi campioni, si comincia a intravedere una certa tendenza alla specializzazione: scorrendo l’albo dei vincitori nel kumite, ricorrono ossessivi i nomi di Oishi (allievo del M°Shirai, quattro volte vincitore del titolo) e di Tanaka, la bestia nera dei nostri atleti ai mondiali di Tokyo. Nel kata svetta invece la stella di Osaka, 6 volte campione del Giappone e indiscussa star della fortunata serie di libri e cassette Best karate. Solo Yahara, genio e sregolatezza, primeggiava ancora in entrambe le specialità, trasformando i suoi kumite in veri happening e i suoi kata in lotte furiose contro avversari invisibili.
Come ci sembrano i Sochin, gli Empi, gli Unsu di Osaka, rivisti su Youtube a distanza di trent’anni? Belli, senza dubbio, di una bellezza essenziale, che niente concede al leziosismo ed enfatizza ancora una volta l’efficacia nonché la spiccata personalità dell’esecutore. Nello stesso periodo, il Maestro Shirai sfornava una formidabile squadra (Fugazza, Ruffini, Marangoni), pari in bravura se non superiore a quella giapponese, ma destinati invariabilmente a soccombere di fronte all’arbitraggio filo-giapponese dei mondiali. Carlo Fugazza, 2° nel 1975 a Los Angeles e 3° nel 1977 a Tokyo, è stato l’ultimo italiano a comparire nell’albo d’oro dei campionati JKA.
Nel 1979 i fuoriclasse della scuola del M°Shirai si spostarono “dall’altra parte” ed iniziarono a mietere successi anche nelle competizioni WUKO. Qui le cose erano però notevolmente diverse: le gare erano interstile e bisognava fare i conti con un arbitraggio nel quale la potenza, “cifra” dello Shotokan, non era adeguatamente valorizzata (si veda a riguardo l’intervista del sottoscritto al M°Kanazawa nel 1982). Nel kata maschile dominava l’astro di Tomajoshi Sakamoto (Goju-ryu di Okinawa), relegando gli atleti dello Shotokan alle piazze d’onore. I nostri migliori esecutori erano “andati in pensione” e fu necessario attendere Sydney 2006 per veder brillare la medaglia di bronzo sul petto di Dario Marchini, il miglior esponente della nuova generazione forgiata dal M°Fugazza, responsabile del settore dai primi anni ’80. Marchini, Acri e Cardinale sostituirono degnamente lo squadrone di Tokyo, ma erano atleti diversi: meno alti e massicci, più leggeri e veloci, nascevano già come specialisti di kata, anche se erano tutti dei buoni combattenti. Nel 1988 ai mondiali del Cairo arrivavano l’argento a squadre e il secondo bronzo per Dario Marchini; inoltre il grande lavoro del M° Fugazza riportava finalmente sul podio anche la squadra femminile (Cabiddu, Restelli, Nesi).
Il trionfo della “seconda generazione” azzurra era consacrato l’anno successivo nella World Cup di Budapest, una specie di supercampionato mondiale nel quale l’Italia vinceva due medaglie d’oro con le due squadre, e saliva sul podio anche con Marchini e la Restelli. I loro kata, rivisti su Youtube vent’anni dopo, evidenziano la perfezione del gesto, mai disgiunta dalla ricerca della velocità, della potenza e (nel caso delle prove a squadre) di un perfetto sincronismo.
Nel 1990, ai mondiali di Città del Messico, nuovo argento per Marchini e nuovo oro per la quadra maschile. Nello stesso anno si consumava però un’ennesima, dolorosa ma inevitabile frattura nel mondo del karate italiano: la scuola del M° Shirai usciva dalla Fitak (poi Fijlkam) e fondava una nuova federazione, la Fikta. Che cosa sarebbe successo al kata italiano privato dei suoi migliori esponenti? Dal punto di vista del medagliere il bilancio è positivo: dopo quasi un decennio di prestazioni modeste in campo maschile (bilanciate dai ripetuti successi della Colajacono e della Sodero), a partire da Monaco 2000 compare sull’orizzonte l’astro nascente di Luca Valdesi, che nel 2004 a Monterrey conquisterà, primo italiano nella storia del karate, il titolo mondiale individuale, bissato due anni dopo a Tampere, dove anche Sara Battaglia vincerà la medaglia d’oro. Valdesi trascinerà alla vittoria, per ben due volte, anche la squadra, composta, oltre che da lui, da Figuccio e Maurino.
Dobbiamo dunque concludere che Luca Valdesi (due titoli mondiali individuali, 14 titoli europei e non so quanti titoli italiani) è il più grande esecutore di kata nella storia del karate italiano? La risposta, assolutamente soggettiva e poco diplomatica, è no! I kata di Valdesi (su Youtube c’è solo l’imbarazzo della scelta) ci mostrano un ottimo atleta, dotato di grande velocità, buona potenza e notevoli doti acrobatiche, nonché di una spiccata personalità che ci ricorda quella di Marina Sasso (campionessa europea di wado-ryu negli anni ‘70). Oltre ai suoi indiscutibili pregi, si vedono però chiaramente anche i difetti: tecniche “mangiate” per guadagnare velocità, limitato uso delle anche, pause ingiustificatamente lunghe e insopportabilmente teatrali. Non è demerito suo, ma di chi gli ha insegnato a fare così. In mano a un grande insegnante, in pochi mesi potrebbe raggiungere l’eccellenza, senza perdere nessuna delle sue doti naturali.
Perché dunque stravince Valdesi? Perché è migliore dei suoi avversari, e perché (mi suggerisce uno dei più grandi esecutori e allenatori di sempre) esegue i kata come li vogliono gli arbitri, che spesso non sono maestri né esperti di uno stile particolare: spettacolari, teatrali, acrobatici. Con Valdesi la parabola del kata si è completata: dall’epos al melodramma. Più di Valdesi, nella nouvelle vague Fijlkam ho apprezzato per pulizia, velocità, kime i kata di Viviana Bottaro, compagna di squadra di Sara Battaglia, che proviene da una piccola palestra ligure come la sorella Valeria, entrambe allieve di Claudio Albertini.
Nel frattempo naturalmente la Fikta non dorme, e ha dominato e domina tuttora nei campionati europei e mondiali ITKF, con atleti come Silvio Campari, Roberto Mariani, Mirko Saffioti, Nazario Moffa, Simona Pellegrinelli e Chiara Polello. Peccato che ragioni di politica federale non permetta un confronto diretto tra quelle che si devono ormai definire le due scuole del kata italiano!