Lettera ai miei allievi…

Eventskarate 10 gennaio 2013

Bruno Ballardini

Diversi anni fa ho scritto una lettera ai miei allievi per iniziare a ragionare insieme sul senso della pratica, sul praticare oggi karate.

La posto qui di seguito proponendo un gioco agli insegnanti presenti. Provate a scrivere una lettera (anche più breve di questa) ai vostri allievi, reali o ipotetici, per spiegare loro che senso ha fare karate. Vanno benissimo anche lettere ironiche, sorridenti, non solo seriose o \”marziali\” come molti credono necessario: proviamo per una volta a prenderci meno sul serio. Che cosa scrivereste?

———– Mi piacerebbe veder uscire dal loro ghetto le arti marziali, mi piacerebbe che avessero la possibilità di dimostrare il loro valore educativo. Parlo soprattutto dell\’Arte della Mano Vuota (giapponese, okinawense, cinese) che è la più nobile perché è antitetica all\’uso delle armi, e proprio per questo ha un altissimo significato simbolico.

Invece, per la massa siamo ancora quelli che fanno cose strane con i costumini. Quelli che sono stati plagiati dai filmetti e dai fumetti. Eppure ci sono innumerevoli dojo seri dove si insegnano valori che nelle famiglie e nella scuola ormai sono lettera morta. Assistiamo tutti i giorni allo sfacelo della nostra civiltà (e del nostro Paese in particolare), ma nessuno è più capace di far rispettare e di insegnare i valori che dovrebbero appartenerci. In compenso molti sono pronti a criticare chi \”ha bisogno di fare il giapponese o il cinese per scoprire dei valori che ha già\”. Già… Ma il fatto è che in altre culture questi valori sono ancora ben saldi e rispettati, mentre ormai per noi sono soltanto parole. \”Avere dei valori\” è soltanto una frase, non significa necessariamente averli sul serio. La nostra società è diventata ipocrita, irresponsabile, infantile. Chi parla di valori, spesso è il primo a non averne.

Anche il karate sportivo ha fatto danni. Perché ha mantenuto del karate soltanto l\’apparenza. Poi per il resto è stato fagocitato e digerito dall\’ottica sportiva, diventando sport a tutti gli effetti. E allora, cosa fare per rompere il velo di Maya delle apparenze, dell\’ipocrisia, delle parole? La medicina migliore è imparare con il corpo. E\’ questa la vera saggezza dell\’Oriente. L\’Occidente, forse anche grazie al disprezzo cattolico per il corpo (e su questo, leggetevi Umberto Galimberti) ha dato troppa importanza alla testa. La testa staccata dal corpo. Anche quando dicevamo \”mens sana in corpore sano\” non facevamo altro che dividere la testa dal corpo. Con la conseguenza che la testa ha cominciato a pontificare anche per il corpo ed ha preteso di sostituire l\’esperienza pratica con la teoria. Con le parole.

Non c\’è rimedio a questo. L\’unica medicina è quella che ci tramanda l\’Oriente. Per questo abbiamo bisogno dell\’Oriente, perché ci riporta con i piedi per terra. E non c\’è razzismo che tenga, sono parte dell\’umanità anche loro e tutto ciò che è umano MI APPARTIENE. E\’ questo quello che dovete rispondere a chi vi domanda che bisogno avete di \”fare i cinesi o i giapponesi\”. Imparare attraverso il corpo è la cosa più importante eppure il nostro sistema educativo ci impedisce di farlo quasi subito. Non prendiamo abbastanza botte da un punto di vista gnoseologico, siamo mammoni anche in questo.

Invece che meraviglia salire su un tatami.
Il tatami è una metafora del mondo. Tutto ciò che accade sul tatami è esattamente quello che ti può capitare nella vita. Non sto parlando di aggressioni: chi intende le arti marziali ancora in questo modo non ha capito nulla e continuerà a ragionare come un pugile suonato (per quanto, sono convinto che i colleghi della boxe, in età avanzata, sviluppino autonomamente anche loro una profonda saggezza).
Sul tatami sei da solo con te stesso. Non inventarti scuse.

L\’avversario è solo un pretesto per toccare con mano i tuoi limiti, la tua pochezza, il tuo egoismo (nel senso di attaccamento all\’Io). Se sbagli prendi un pugno o un calcio e non puoi dare la colpa a nessun altro come sei abituato a fare nella vita. Se pensi troppo a te stesso prendi un pugno o un calcio. Se pensi troppo all\’avversario prendi un pugno o un calcio. Se ti lasci distrarre anche per un attimo dalle ansie per quello che devi fare il giorno dopo prendi un pugno o un calcio. Se sei troppo depresso prendi un pugno o un calcio. Se sei troppo euforico prendi un pugno o un calcio. Se credi di essere arrivato da qualche parte prendi un pugno o un calcio. E non puoi dare la colpa a nessuno.

Ti devi assumere le tue responsabilità. E lo devi fare in tempo reale, addirittura in pochi attimi. E sei da solo. Per questo le discipline da combattimento sono superiori agli sport di squadra dove puoi sempre \”fare il pesce in barile\”, come dicono a Roma, oppure scaricare su qualcun altro un po\’ dei tuoi doveri o un po\’ delle tue responsabilità. E fra queste discipline, quelle della Mano Vuota sono le più nobili.

Devo molto alla Mano Vuota. In questi trent\’anni e passa stavo per smettere tante volte. Ma devo riconoscere che grazie a lei ho imparato e sto imparando ancora a vivere. E mi ha salvato la vita in almeno un\’occasione e in un\’altra mi ha insegnato a \”morire\” dignitosamente.

Ecco un altro punto in cui l\’educazione Occidentale viene meno: imparare a morire. Abbiamo tutti paura della morte e la nostra cultura cattolica (scusate se insisto) opera una censura ed una rimozione quasi totale dell\’argomento. Eppure in Tibet si usa meditare sulla morte ed è un metodo potentissimo per levare subito di mezzo le cazzate della vita.

Un sano rapporto con la morte un tempo ce l\’avevamo anche noi, con la nostra civiltà contadina. E prima ancora quando eravamo animisti. Portavamo sempre con noi i nostri morti, li rispettavamo. E loro \”ci proteggevano\” moralmente con la loro presenza. Oggi pensiamo a loro sì e no una volta all\’anno quando c\’è da portare i fiori al cimitero. Nell\’ipocrisia delle \”feste comandate\”. Eppure, rapportare ogni nostra azione alla loro presenza, come se fossero ancora vivi e ci potessero giudicare, era un\’usanza sana. La morte faceva ancora parte della vita e anzi la favoriva.

Oggi la morte è diventata un oggetto da censurare. Una cosa orribile di cui è fastidioso perfino parlare. Dopo una vita brillante, dopo aver cazzeggiato e dissipato il poco tempo di cui disponevamo, ci si rinsecchisce, si arrugginisce, si diventa rottami e si finisce nell\’immondizia come dei rifiuti dell\’umanità. Non sto scherzando: oggi i servizi funebri sono gestiti dalle stessa Aziende municipalizzate che si occupano dello smaltimento dei rifiuti: nella civiltà dello spreco si butta via anche un concetto utile come la morte.

Educarsi alla morte, nelle arti marziali, significa imparare a perdere quando c\’è da perdere, o imparare ad abbandonare il vecchio Io ed essere capaci di rimettersi in discussione completamente. Almeno una volta mi è capitato di \”morire\”. E se non avessi avuto la Mano Vuota forse sarei morto veramente. E oggi non ho più paura di morire, perché sono già morto almeno una volta.

Credetemi, non sono quattro pugni e lo stile con cui sono tirati a fare la differenza. Ciò non toglie che vadano tirati per diversi anni e forse un po\’ sempre, altrimenti si pratica una Via fatta solo di parole.

Ma quante parole. Mi accorgo che anche quelle che ho scritto sono parole. Spero solo che, nonostante il mezzo faciliti proprio le parole, quelle che ci scambieremo in questo luogo, siano sempre legate all\’esperienza e all\’impegno di ognuno. D\’ altra parte soltanto chi le scrive può sapere se sono sincere o no. Ma chi pratica la Mano Vuota non può non essere sincero.

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