PRIMA DEL KARATE

eventskarate 24 dicembre 2014

Di Carlo Lembo

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Prima di dare conto della scelta di un titolo così enigmatico, desidero far spazio ad una breve premessa, concernente il significato che intendo attribuire alla compilazione stessa di queste mie poche e povere considerazioni.

 

INIZIO DELLA PREMESSA

E’ impossibile negare che nella comunicazione di un qualsiasi contenuto, accada che, quanto più il contenuto risulti essere “elevato”, tanto meno occorrano parole  per comunicarlo; anzi, esse arrivano addirittura al punto di sporcarlo, quando vengano usate in quantità e qualità non idonee. Persino la musica, che è capace di esprimere sentimenti profondissimi, inizia e termina col e nel silenzio, che, evidentemente, trascende e supera la musica stessa. E’ altrettanto vero che c’è un tempo per ogni cosa, come ricordano i Salmi nell’Antico Testamento, ed esiste quindi un tempo anche per le parole, che hanno anch’esse un ruolo, usate al modo ed al momento opportuno. Le parole possono e devono condurre, al termine del loro percorso, fino alle altezze di un pudico silenzio; silenzio che comprende ogni parola. Comprende: non nega, o rifiuta. I cristiani chiamano Cristo stesso “il Verbo”, poichè, per l’appunto,  si è manifestato  al mondo tanto con fatti, quanto con parole. Al punto che il termine ”Verbo” significa appunto “ Parola”. Leggiamo dal testo: “ La dottrina della fede” di Franco Amerio, edizioni Ares, Milano: “ sotto i Veli del Pane Eucaristico e sotto i veli della lingua umana ( Sacra Scrittura) si manifesta lo stesso Verbo di Dio “. Siamo quindi invitati anche noi, certo in formato ridotto, a servirci, all’occasione, delle parole. Troviamo in uso questa concezione di Silenzio e Parola presso tutti gli antichi popoli, basta leggere i loro miti cosmogonici, che esprimono concetti sorprendentemente simili fra loro. Il mantra AUM, sacro alla religione induista, rappresenta, in essa, il percorso dell’uomo nella ricongiunzione con l’Assoluto: dalla sonora A, attraverso la semisonora U, fino al silenzio M (muto): dalla creazione, quindi, all’ Increato. Il percorso inverso, ovviamente, viene seguito dalla Divinità nel creare: MUA, è il suono che lo rappresenta: dal silenzio, al dispiegamento totale del cosmo.  Si usa dire, nella tradizione cattolica, che le letture hanno generato e generano molti Santi, i quali, ovviamente, non sono tali solo perché praticano sane letture, ma perché hanno imparato, anche leggendo bene, a pregare bene, e di conseguenza, ad  amare bene. Di tutto si può scrivere: posso trattare per esempio dell’amore filiale, ma ciò che provo per i mie genitori ovviamente non potrà essere espresso né bene né compiutamente in uno scritto. Certamente, il nucleo più profondo di questo sentimento merita un rispettoso silenzio, è ovvio. Termino: tanto l’antico guerriero insegnava ottimamente nella laconicità quando necessitava, quanto l’uomo di ogni tempo, compreso l’antico guerriero, agisce ottimamente parlando a tempo e modo debito, riservandosi di essere laconico appena occorra. Trovo strano d’altronde attendersi dei fatti da uno scritto: è come attendersi che sgorghino dal nulla dei manoscritti nel mentre si concretizza un qualsiasi evento. Chi voglia, per legittima preferenza, solo fatti, e accompagnati dalla laconicità, non li troverà in queste righe, che, altrettanto legittimamente, stanno proponendosi  l’ obiettivo contrario. Anzi, non si sa perché, in tale logica, egli si attardi a leggere qualsivoglia riga. A meno che non si vogliano considerare queste righe come costituenti un fatto vero e proprio, in quanto dotati della qualità di esistere. Comunque, queste mie modeste righe non pretendono certo di generare santi, ovviamente, ma chiedono semplicemente di essere legittimate ad esistere. In queste pagine si tenta di praticare il kata della comunicazione scritta, nel senso che più avanti dirò. Il silenzio lo praticheremo nella meditazione, dove potremo esercitare, eventualmente, il kata del discepolato presso un Maestro, se lo vorremo, e, soprattutto, se saremo pronti.

FINE DELLA PREMESSA

Quindi: prima del Karate. Prima del karate, quello vero,  come prima di ogni altra azione, occorrerebbe la retta intenzione. L’agire retto, l’agire utile, l’agire costruttivo, l’agire sub-creativo, dato che, spero, l’azione creatrice la vogliamo riservare al Creatore, per chi Ci crede. La retta intenzione è tale se è rettamente finalizzata. E solo è rettamente finalizzata quell’azione conforme all’ordine universale, che in antico, nella religione vedica, veniva chiamato RTA ( Vedi il mio precedente povero articoletto intitolato “Karate ed oltre…la superstizione”, nelle note finali ).  Un agire, quindi, che umilmente tenti di ricalcare le orme già tracciate dallo stesso Ordine cosmico. Un agire, quindi, per imitazione e partecipazione, come avviene in maniera eminente, per il cristiano, di fronte al Modello perfetto, Cristo Signore, caso unico e scandalizzante di vero Uomo-Dio; tanto scandalizzante che ( almeno formalmente ) fu per questo accusato e condannato alla crocifissione. Il divario fra uomo e Dio era ed è, per l’uomo non cristiano, assolutamente incolmabile, ecco perché il Cristo era ed è pietra d’inciampo per l’uomo dalla visione unicamente orizzontale ed era, ed è, novità sconvolgente per qualsiasi uomo lo incontri per la prima volta: per il cristiano, Lui ha colmato tale divario, poiché è contemporaneamente le due cose: una persona divina in due nature, una umana ed una divina. E’ di fronte a ciò, che casca il nostro asino. Nel nostro occidente desacralizzato, a differenza di quanto avveniva, per dirne una, nell’antico Giappone, oramai si disconosce una fonte primigenia da imitare ed alle cui gesta e volontà partecipare. Maggiormente risalta evidente tutto questo sfacelo, proprio nelle Arti Marziali tradizionali, che trasudano così tanta ritualità (RTA), cerimonialità, significati e significanti, proponendo altresì sfide profonde con noi stessi, attraverso l’ordalia del kumite. Un contrasto stridente. Quindi ciò che veramente ci manca, oramai, è semplicemente il perché del tutto, il Grande Perché di ogni gesto; un perché che brilla per la sua assenza, soprattutto, ripeto, in pratiche forgiate, a loro tempo, principalmente per veicolare la risposta divina al grande Perché del tutto. Ed intendo il termine “rispondere” anche nel senso di “obbedire” al Perché. “Obbedire”: altro termine aborrito nel nostro piccolo mondo individualista; lo stesso termine “kata” significava, sostanzialmente, la formalizzazione interiore ed esteriore del proprio essere, congruamente, quindi in obbedienza, alle aspettative (sociali od estetiche o marziali od altro) che una determinata via richiedeva al praticante ( come ben chiarisce il testo “ lo zen e la via del Karate” di Kenji Tokitsu ). Deferenza ad una gerarchia di valori: oggi assistiamo alla morte della deferenza, alla morte della gerarchia, alla morte dei valori, o, per lo meno, alla loro penosa agonia. Morte apparente, in realtà, secondo il mio piccolo parere: poco lievito fa fermentare tutta la pasta, ben occorre ricordarlo. Se andiamo ad esaminare una antica civiltà come, a puro titolo di esempio, quella etrusca, possiamo rilevare come la ricerca quasi ossessiva del volere del cielo, e il conseguente bisogno di conformarvisi, caratterizzasse ogni aspetto della vita di quegli uomini. Qualunque testo serio sull’argomento, ce ne riporta testimonianza, vedi ad esempio l’opera di Werner Keller “la civiltà etrusca”, ed.Garzanti: stiamo parlando di una civiltà che aveva raggiunto vette di sapere e di saggezza quasi inconcepibili, anche nel campo dell’arte della guerra. Stiamo parlando di una civiltà cui tutto il mondo romano, che le succederà, sarà debitore, in quanto esso ricevette dagli etruschi non solo i natali ed i primi re, ma anche le basi sulle quali ha poi sviluppato tanta magnificenza e splendore, e ciò sotto qualsiasi punto di vista. Secondo il mio opinabilissimo parere, oserei dire che, qualitativamente, gli eredi romani, nella loro grandezza, non sono riusciti mai ad eguagliare i loro antenati etruschi, ma hanno solo utilizzato i tesori  contenuti nell’eredità, peraltro solo parzialmente. Basti considerare la profondità della sfera sacrale del popolo dei Lucumoni, che si rifletteva, tra l’altro, in manufatti ed opere d’arte di strabiliante raffinatezza, nonché nell’utilizzo di conoscenze tecniche e scientifiche incredibili per l’epoca, come quelle applicate ad esempio in opere di bonifica, drenaggio, irrigazione: esattamente in quei campi, quindi, in cui si ritiene comunemente che la civiltà romana abbia detenuto il primato. Laddove, poi, l’antica Roma ha camminato oltre i confini dei genitori etruschi, superandoli, gioverebbe ricordarsi della tradizionale immagine dei nani che poggiano i piedi sulle spalle dei giganti, giungendo quindi più in alto dei loro progenitori. Ciò vale, d’altronde, in riferimento ad ogni epoca, fatte salve le debite differenze.  Ecco nell’incanto della civiltà del popolo Rasenna o Rasna, come gli etruschi chiamavano se stessi, manifestarsi quel concetto di kata, relativamente all’ascolto ed adesione alla volontà-guida delle forze creatrici primigenie. Dunque, ritorniamo a noi: prima del Karate: riprendiamo un momento il concetto di RTA. Certamente  ogni diversa età e condizione, come ricorda anche s. Paolo nelle sue lettere, richiede un cibo appropriato: in ogni cultura ed epoca, è naturale che i bambini, che assistano a funzioni religiose insieme ai loro genitori, sostanzialmente giochino nel frattempo, anche se qualcosa dell’evento filtrerà comunque nella loro sensibilità. E’ quindi naturale che gli allenamenti nei nostri Dojo si adeguino alla sensibilità ed alla diversa età dei praticanti, lasciando posto, dove occorra, persino all’aspetto ludico e spensierato dell’allenamento, senza trascurare accenni quasi inavvertibili al “Do”, che comunque non mancheranno di essere recepiti anche dai piccoli allievi. Per noi, che purtroppo non siamo più bambini ( escluso me, che dovrò decidermi prima o poi a crescere un po’, visto che mi incammino verso le 60 primavere ) occorre cibo solido, e binari obbligati. Inquadrarsi nella RTA. Provo a spiegarmi col consueto esempio del lievito: immaginiamo che ciascun praticante la nostra amata Arte, così come di qualunque altra, si sforzasse di concepire il proprio esercizio come un progressivo sfrondare il nostro cuore e, di conseguenza, il nostro corpo, da quelle disarmonie ed illogicità che lo fanno agire così spesso in maniera incongrua con il risultato prefisso. Un po’ come ragionano i grandi scultori, che fanno emergere la figura dal marmo, asportando dal blocco tutta la materia inutile. Potremmo così diffondere, sia pure immeritatamente, del lievito di rinnovamento dal basso, ognuno esortando il proprio prossimo, promuovendo una “metànoia” che contamini uno ad uno i nostri compagni di Viaggio. Uno ad uno, fibra per fibra, come avviene con l’inchiostro e la carta assorbente. Nessuno è così piccolo da essere autorizzato a ritenere il proprio apporto ininfluente, neppure io. Ogni contributo è prezioso ed unico. Vediamo un po’ come si potrebbe procedere, nel caso della disciplina da noi prediletta, almeno secondo il mio ininfluente sentire, che esprimo abusivamente in quanto persona a ciò non abilitata, laureata solo in scienze confuse, e chiedendo a voi, miei 12 lettori, altrettante opinioni che potrebbero illuminarmi ed arricchirmi davvero su tale argomento. Allora: sempre secondo il mio suddetto sentire, il nostro povero mondo globalizzato e tecnologizzato, oltre a correre verso l’autodistruzione alla velocità della luce, rincorrendo chimere di eguaglianza sociale e di democrazia da due millenni e mezzo, prode sforzo che ha portato la metà delle ricchezze del pianeta nelle mani di 83 dico ottantatre persone, ha inoltre proceduto finora come un povero malato al quale non manca solo l’uso di un braccio o di una gamba o della vista o dell’udito, ma manca proprio tutto, ad eccezione dell’uso di una mano, peraltro assai rapace e lorda di sangue, fatte salve, grazie al Cielo, le debite eccezioni. La nostra è un’epoca di mezzi migliori per fini peggiori, come saggiamente notava Tolkien. Noi uomini siamo comparsi da un solo minuto sulla terra, se consideriamo le prime forme di vita come risalenti a 24 ore fa. Questa intelligentissima specie che noi rappresentiamo, ha già compromesso gravissimamente, fra gli altri, anche l‘equilibrio ecologico, tanto da mettere in forse la possibilità della propria stessa sopravvivenza. Immaginiamoci se fossimo la più stupida specie, cosa avremmo combinato. Siamo appollaiati su un ramo sospeso sull’abisso, impegnati freneticamente a segarne la base. Assomigliamo un po’ a quel giocatore di poker via internet, che vince discretamente e discretamente campa, ma, per l’appunto, campa, certamente non vive. Il suo conto in banca cresce, lui accumula vincite, ma sta rintanato tutto il dì davanti ad un monitor, ed apprezza oramai ben più un tris d’assi che il profumo della vegetazione di un sottobosco in autunno. Sta perdendo la vita, ma ancora si trascina benone, perché le fragoline del sottobosco, o dichiarate tali, se le fa recapitare a domicilio dal supermercato all’angolo. Questo stiamo perdendo noi, nello smarrimento del contatto con la nostra respirazione, il battito del nostro cuore, il nostro baricentro fisico e psicologico, il nostro intuito, la percezione reale invece che virtuale della nostra collocazione spaziale e temporale. Ci consoleranno forse i film in 3D con artifizi olfattivi virtuali?  Mah! Soffermiamoci ora, per un attimo, ad analizzare una esempio di fantastica e naturale sinergia fra corpo e spirito, sufficientemente vicina a noi da rendere l’idea: l’esecuzione di un canto gregoriano, ad opera di monaci riuniti nel coro ligneo di una stupenda abside in stile gotico. Pochi eventi sono paragonabili a  questo, nel rappresentare, qui in occidente, il fenomeno dell’azione di un principio spirituale che domina ed informa (kata) la materia, contemporaneamente amandola e rispettandola. Sarebbe quasi possibile nutrirsi fisicamente di tutta quell’energia ed armonia che viene irradiata da un coro di tal genere. Pensiamoci un attimo: il silenzio del tempio, la luce misurata e filtrata dalle vetrate multicolori; la concentrazione e compunzione dei cantori, la sobrietà ed essenzialità degli abiti. Lo studio accurato della respirazione e l’emissione controllata ed intonata dei suoni, calibrati per ottenere la frequenza ed il volume adatto a far impercettibilmente vibrare anche le mura stesse, nonché i cuori ben sintonizzati. La scelta dell’ora giusta, del testo e della musica adatti a quella precisa collocazione nel calendario liturgico, e persino l’attenzione alla concordanza con le fasi solari, lunari ed astrali: pensiamo per un attimo ai tre re Magi citati nel Vangelo, ed alla loro lettura della volta celeste, che li porterà ad identificare l’importanza e la localizzazione di un evento spirituale remotissimo nella collocazione spaziale e temporale e nascostissimo agli occhi di chiunque. Tornando ai cantori: la lunga preparazione di preghiera e digiuno per ottenere la migliore disposizione d’animo; la corretta postura del corpo; a quel punto ci si accorgerà che la melodia è viva, e ci sta ascoltando. Perché negare questa cura alla pratica del karate? Perché non giungere a “celebrare” l’arte marziale come un rito, e trasformare le nostre esercitazioni in una specie di rappresentazione di un piccolo microcosmo armonico, nei ristretti limiti del possibile, ovviamente; come fossero una serra, dove, nelle migliori condizioni ambientali possibili, crescano fiori che solo con quella cura possono sbocciare: sarebbe un modo per offrire a noi ed a tutti quel po’ di lievito che potrebbe alla lunga far fermentare tutta la pasta. Ognuno potrebbe, con tanta umiltà e coscienza dei propri limiti, tentare di realizzare qualcosa di tutto ciò nelle proprie attività quotidiane, partendo da quelle che sentiamo più vicine al nostro cuore, per le quali ci sentiamo maggiormente inclinati, apportando infiniti benefici, direttamente e non, anche alla vita di tanti nostri compagni di viaggio in questa vita: allo stesso modo in cui uno splendido inno sacro ben eseguito potrebbe segnare la nostra sensibilità nel profondo, a volte aiutandoci  ed ispirandoci a trasmutare il nostro piombo in oro. Insomma, una specie di assaggino, tipo il tassello nel cocomero, fornendo così un esempio di come tutto il resto della nostra giornata andrebbe concepito. Non sto dicendo nulla di nuovo, se pensiamo che alcune arti rituali e cerimoniali, vedi in Giappone l’antica cerimonia zen dell’arte di preparare e servire il the, aveva in fondo proprio questa funzione, nè più nè meno. Sto ribadendo concetti che andrebbero, a detta di ogni vero artista, tenuti presenti e considerati scontati, prima di praticare qualsiasi arte, e, per l’appunto, nel nostro caso, prima del karate. Pensiamoci un attimo: una cerimonia consistente sempre negli stessi piccoli gesti, pochi ed umili, come riscaldare l’acqua, preparare l’infuso, offrire la tazzina: sempre gli stessi gesti: ciò che progredisce, di cerimonia in cerimonia, attraverso il tempo e la ripetizione, è la consapevolezza del movimento, la concentrazione, la serenità interiore, la calma mentale, la sottrazione del superfluo. Riportato nella nostra disciplina, ciò si tradurrebbe in un intenso e prolungato momento di preparazione mentale che, ad ogni seduta, dovrebbe precedere la pratica. Quest’ultima, come lasciava intendere fra le righe il Maestro Otsuka col suo apparentemente limitatissimo e straordinariamente sapido programma, potrebbe in fondo consistere in un pugno di tecniche base, basate su un pugno di princìpi base, ma da eseguire via via, col passare degli anni, con una consapevolezza, serenità, equilibrio, sicurezza crescenti.  A ben pensarci, il the, nella relativa cerimonia, non veniva servito per una infinità di volte nella stessa seduta, ovviamente: una intensa preparazione, era al servizio di una sola degustazione. Sarebbe forse strano se, in una seduta di allenamento marziale, i praticanti di livello avanzato dedicassero una profonda preparazione al fine di eseguire al meglio un’unica tecnica in quella seduta? In fondo un’unica tecnica basta per stabilire il discrimine fra vita e morte. Anche il Maestro di calligrafia, in Giappone, esegue col pennello un tratto su un foglio, e quel singolo tratto rappresenta una vita, la totalità e pienezza di una vita. Contemporaneamente e parallelamente, la ripetizione, la concentrazione, lo studio della respirazione, la ricerca dell’essenziale saranno la base per nutrire il vero progresso e raggiungere e sostenere il suddetto livello avanzato di preparazione; al contrario, il collezionare una miriade di tecniche calibrate sulle più varie circostanze, o accumulare ripetizioni di carattere atletico fini a se stesse, migliorerebbe solo l’aspetto ginnico della disciplina, il quale, comunque, tende per natura a declinare con l’avanzare dell’età. Quanto alla ripetizione, occorre aprire una parentesi a mio avviso alquanto interessante, e che, credo, riguardi anch’essa il cuore del problema, proponendo una ipotesi di soluzione. Noi possiamo riscontrare l’adozione di modalità ripetitive praticamente in tutte le forme devozionali o cultuali di qualsiasi popolo: dalla ipnotica rotazione dei dervisci sul perno della propria colonna vertebrale, ai mantra ripetuti in sequenze senza tempo, alle danze ritmate ed degli sciamani e degli antichi veggenti e guerrieri, e, finanche, nelle centinaia di invocazioni sostanzialmente sempre uguali rivolte a Maria Madre di Dio nella contemplazione dei Misteri del Rosario. Non sembra esservi dubbio che la tecnica della ripetizione serva ad innescare un meccanismo in qualche modo estatico ed incantatorio, che facilita la connessione con uno stato di coscienza diverso e superiore, che rende fluido e spontaneo il rapporto con sé stessi e con la realtà che ci circonda; senza dubbio serve, nelle intenzioni dei praticanti, ad acuire la percezione della realtà, particolarmente di realtà di livello superiore, fino ad un livello per noi, probabilmente, inimmaginabile. Ogni genere di religiosità, poi, utilizza questa pratica per veicolare, ovviamente, il proprio credo ed i propri valori. La ripetizione affievolisce a poco a poco la percezione del distacco fra la nostra volontà ed il nostro corpo, fra il nostro corpo e la realtà esterna a noi, fra il nostro corpo e quello dell’avversario; o meglio, la distinzione  in realtà esiste, altrimenti cadremmo nel grande minestrone della indistinzione cosmica, di sapore new age, dove ogni realtà alla fine si scioglierebbe  e si identificherebbe con qualsiasi altra, in un indistinto calderone cosmico, dove il tutto è il nulla, e viceversa; la ripetizione, invece, assottiglia quella barriera che ci impedisce di cogliere la misteriosa interconnessione del Tutto. Tanto per fare un esempio: la nostra mente pensa e vuole, interagendo sempre con il corpo, non certamente astraendo da esso. Siamo un tutto unico, costituito da parti distinte ma interdipendenti, senza che, tuttavia una si confonda nell’altra.  Quindi: formalizzare e ritualizzare una ripetizione, tanto che possa divenire sostanzialmente una forma di meditazione. Il come, possiamo lasciarlo alla creatività ed alla sensibilità dei singoli pionieri o, meglio, neo pionieri di una tale Via ( poiché in buona parte non si farebbe che ricalcare le orme di antichi sperimentatori e praticanti rinverdendone le pratiche). Molte popolazioni arcaiche, pur di tentare di raggiungere tale scopo a qualunque costo, hanno persino utilizzato delle pericolose scorciatoie basate sull’uso di sostanze allucinogene, pratica che è assolutamente da aborrire, a causa della loro dannosità fisica e psicologica intrinseca, ed anche a motivo del finto risultato cui esse conducono, che risulta sostanzialmente falsato ed artificiale come le sostanze stesse, portando ad uno stato che è solo la brutta imitazione del vero obiettivo; una illusoria scorciatoia verso un illusorio risultato; lo cito, solo per sottolineare la tensione perennemente presente nell’uomo, verso il conseguimento di una visione omnicomprensiva, per quanto possibile, dell’esistenza. Per un approfondimento dell’interconnessione di cui parlavo, gioverebbe senz’altro la lettura del ricco testo di Fritjof Capra, “il Tao della fisica” ed.Adelphi. In sostanza, a questo punto forse si capirà dove vorrei arrivare; percepire l’avversario quanto percepiamo noi stessi, tramite questa interconnessione, è il massimo traguardo di qualsiasi lottatore. A quel punto saremo portati ad amare l’avversario, in quanto lo sentiamo parte di noi stessi, ma saremo anche capaci, dato che arriviamo a conoscerlo sufficientemente a fondo, di neutralizzarlo, se ne veniamo costretti dalle circostanze.  Persino la fisica insegna che nessun evento, per quanto minuscolo, è scollegato ed ininfluente nei riguardi di tutto il resto del cosmo. In realtà, strano a dirsi, non sarà l’atletismo, non sarà la varietà delle tecniche, non sarà neppure la velocità che conferirà la vittoria al combattente. Eliminare l’inutile, conduce alla rapidità, che, per se stessa, non andrebbe neanche ricercata, poiché è un sottoprodotto dell’essenzialità. Quando un Maestro di musica ed un allievo suonano insieme un brano musicale, il Maestro non darà mai la sensazione di aver fretta e di ricercare la rapidità, ma risulterà pacato e naturale anche nel turbinìo di note, mentre l’allievo darà sempre la sensazione di affrettarsi, e di rimanere, tuttavia, sempre un po’ indietro nell’esecuzione. Se andiamo ad esaminare i 9 kata ed i 10 kihon del Maestro Otsuka, sfrondando le ripetizioni, potremmo ottenere un piccolo insieme di tecniche base, che è possibile contare forse sulle dita di una mano sola. Un altro suggerimento dei kihon kumite, come dei kata, è quello dell’essenzialità e semplicità delle difese-attacco che vengono lì effettuati. Qualcosa di più elaborato, sempre nell’essenzialità, lo troviamo nel 5° e nel 10° kihon, dove si studiano le proiezioni, altrimenti troviamo solo movimenti semplici, secchi, risolutivi ed elementari. Il difficile non è tanto nel cosa eseguire, ma è nell’eseguire bene, e nel momento giusto. Anche un semplicissimo dito in un occhio è risolutivo, se non abbiamo convinto il nostro avversario a deporre le armi: tutto sta ad arrivare a segno, nel caso si venga costretti. Un esempio può valere per rendere l’idea: il grande musicista J.S. Bach compose negli ultimi dieci anni della sua vita  un’opera, tra le altre, intitolata  “l’arte della fuga”, dedicandovisi con assiduità negli ultimi tre anni precedenti la sua morte. Quest’opera consiste in un tema di quattordici note, che potrebbero essere fischiettate da un bambino nell’arco temporale di non più di nove secondi, sul quale  l’autore ha operato una quantità di elaborazioni strabilianti. Ha sovrapposto, al tema, lo stesso tema eseguito al contrario, lo ha rallentato inserendone un altro a metà del primo, lo ha accelerato, lo ha intrecciato come il famoso “fra Martino campanaro” che tutti conosciamo, e, continuando di questo passo, ha composto un’opera poderosa formata da 14 fughe (guarda caso lo stesso numero delle note del tema) e quattro canoni. L’incisione in mio possesso diretta da Reinhald Goebel del 1984 dura più di 75 minuti. La bibliografia sull’arte della fuga è sterminata, e le esecuzioni nell’ultimo secolo sono più di 200, ad opera dei più vari organici orchestrali e di musicisti di primissimo ordine. Tutto su 14 note, delle quali, oltretutto, 6 sono diverse fra loro, mentre 8 sono le stesse, riutilizzate. Cosa ha voluto trasmettere l’ autore con tutto ciò? Quest’opera rappresenta, probabilmente, la vetta della composizione nella musica occidentale, contemporaneamente per bellezza e per profusione di maestria. Perché mai Bach volle lavorare su una cellula così minuscola? Probabilmente perché ciò che conta è tenere chiare e ferme le poche sillabe necessarie, mentre tutto il resto procede a cascata, per logica conseguenza; si tratta “solo” di assemblare con gusto ed eleganza le sillabe appropriate, cosa che si ottiene con la giusta sensibilità musicale, ovviamente, ma anche con la pratica quotidiana, sia pur breve: dicevano gli antichi latini: “con costanza ma non con trepidazione”; ed infine: “ogni giorno aggiungi un tratto”, cosicchè la tua disciplina divenga per te una seconda natura, da cui l’azione possa sgorgare spontanea. Dopo di che, se la tua anima è nera, sgorgherà una azione bieca seppur efficacissima, se, viceversa, sei un guerriero di luce, la tua azione sgorgherà luminosa e feconda oltrechè ancor più efficace. Fasto, o nefasto, dicevano i  nostri progenitori romani. Occorre, per tornare alle arti marziali, afferrare e fare nostri i principi, fra cui, è ovvio, l’ onnipresente corretta respirazione, rilassamento alternato a contrazione, pulizia della mente, equilibrio, distanza, anticipo, intuizione, e tutti quei capisaldi da applicare in ogni tecnica. A quel punto, i vari adattamenti alle circostanze reali saranno automatici e scontati, e si presenteranno spontaneamente al momento del confronto con uno sfidante. La sicurezza e lo spirito di pace di un Maestro, quindi, nella nostra Arte, verrà inevitabilmente avvertita, al momento opportuno, da chi lo fronteggia, tanto che l’avversario si sentirà probabilmente spinto a non combattere affatto, a deporre le armi e l’aggressività, in obbedienza quasi involontaria a quel principio che, nel termine “Budo”, è contenuto nell’ideogramma “Bu”, e che significa proprio: “convincere l ‘avversario a deporre le armi”; non mancano, nella vita quotidiana, episodi significativi in tal senso, come, ad esempio, mi confidava di aver sperimentato, in prima persona, il mio Maestro  Roberto De Luca, che, cogliendo l’occasione, desidero ringraziare con tutto il cuore per i semi che sta piantando dentro di me, e per l’affetto con cui lo sta facendo. Vorrei ringraziare da quaggiù anche il mio primo iniziatore alla passione verso il vero Karate, il Maestro Mario Morelli, che ora starà affinando le tecniche lassù, coadiuvato dai più grandi combattenti di tutte le epoche, e ci sta guardando amorevolmente, ed ancora aiutando.

CONCLUSIONE

Ci troviamo, allo stato attuale, ad assistere ad una eclissi del sublime: nel nostro caso rappresentata da una diminuzione drastica, (seppur non di assenza, grazie al Cielo), di veri depositari dei principi e, soprattutto, dello spirito della nostra arte, ed altrettanto dicasi dei veri allievi. Mi propongo di ricercare il “prima” del Karate, per poterne vivere il vero senso. Siamo in un labirinto di difficoltà, questo è vero, ma è anche vero, come è scritto nel Vangelo, che “ a chi bussa sarà aperto”, ed anche “chiedete e vi sarà dato”. Noi vogliamo chiedere?

  H.O.F.     Carlo Lembo – 01-12-2014

 

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