Quei cento terribili Bassai Dai
Stage all’aperto dell’AIK a Riva del Gardan (1967). Intervista di Sergio Roedner al M° Fassi.
In questa esauriente intervista, che dedichiamo soprattutto ai più giovani tra i lettori di Samurai, il maestro Roberto Fassi, insegnante e cultore di varie arti marziali giapponesi e cinesi, ma soprattutto indiscusso padre del karate italiano, rievoca le origini, se non mitiche, certamente epiche di questa disciplina in Italia e dice la sua sull’evoluzione (o involuzione) delle arti marziali nel nostro Paese.
– Vuoi parlarci delle radici del tuo interesse per il karate?
– A metà degli anni 50 facevo judo col maestro Koike al Jigoro Kano di Milano. A quei tempi usciva una rivista chiamata Revue Judo Kodokan, il cui redattore era il maestro Henry Plée. Questa rivista, la prima del suo genere in Europa, aveva pubblicato una serie di articoli su una nuova arte marziale chiamata karate. Io avevo cominciato a leggerli, mi ero appassionato e avevo scoperto che veniva praticato in Francia dal maestro Plée. I miei primi inizi però sono stati col maestro Shoji Sugiyama di Torino, che era allora 5°dan di judo e 6°dan di aikido. Credo che fosse anche primo o secondo dan di karate, ma non voleva insegnarlo, anche se molti allievi glielo chiedevano. Finalmente – stiamo parlando della fine degli anni 50 – inizio degli anni 60 – Sugiyama fece partire una corso di atemi. Lui non lo chiamava karate, ma era in pratica un corso di kihon, i fondamentali del karate. Io mi precipitai a iscrivermi. Lui era del gruppo del maestro Mochizuki, il cui padre Minoru praticava diverse arti marziali, era il più “dan-ato” del Giappone. Andai da Sugiyama nonostante la gelosa opposizione di Koike, ma ben presto mi resi conto dei limiti del corso di Torino e decisi di andare direttamente a Parigi, nel dojo del Maestro Plée. Era il 1962.
Plée aveva più di 100 allievi che stipava nella sua palestra di 70-80 metri quadrati, e invitava frequentemente dei maestri giapponesi, tra i quali Oshima, Mochizuki e Nanbu. Ci allenavamo tutti insieme, indipendentemente dal grado, in un clima di indescrivibile entusiasmo.
– Come è nata la tua decisione di invitare in Italia il Maestro Shirai?
– Nel 1963, non appena fui promosso cintura marrone, iniziai a insegnare karate ad un piccolo gruppo di allievi del Jigoro Kano ma, man mano che la pattuglia si ingrossava, sentivo il bisogno di essere aiutato da qualcuno più bravo di me ed invitavo periodicamente i maestri Nanbu e Chouk, un formidabile combattente, reduce dalla guerra in Indocina.
Nel 1965, quando i miei allievi superavano ormai il centinaio, decisi che era il momento di invitare a Milano, in pianta stabile, un maestro giapponese. Ho chiesto consiglio a Plée e lui mi ha detto: “I migliori sono quelli della JKA, io però non li invito perché sono dei rompiballe. Quando arrivano vogliono comandare loro, però se tu vuoi invitare qualcuno, chiama loro. Io conosco benissimo il maestro Nakayama e posso scriverti una lettera di raccomandazione. Tu hai una palestra tua?” Risposi di no. “Allora a te non romperanno troppo le balle”. Così scrissi a Nakayama, allegando la lettera di Plée, e lui mi mise in contatto con quattro suoi istruttori che si trovavano allora in Sudafrica: Kanazawa, Kase, Enoeda e Shirai. Dei quattro l’unico libero da impegni era il maestro Shirai, che però voleva andare negli Stati Uniti per seguire il suo maestro, Nishiyama. La mia lettera (scritta in realtà da mia moglie) lo persuase a cambiare idea e nel novembre del 1965 arrivò a Milano in compagnia di Kase, Kanazawa ed Enoeda. Diedero una fantastica dimostrazione nella palestra secondaria del Palalido, intrattenendo il pubblico da soli per ben due ore. Confortato dal successo della dimostrazione e dalla costante crescita delle iscrizioni ai corsi di karate, Shirai decise di restare in Italia e poco dopo, per dissapori con il gestore del Jigoro Kano, si diede alla ricerca di un proprio dojo, che individuò infine in via Piacenza n.8.
Locandina dell’Associazione Italiana Karate (1969): difesa dal coltello del M°Shirai su Roberto Fassi.
– Ho sentito spesso ripetere che il tipo di allenamento che si faceva allora era molto più duro di oggi.
– Sì, si praticava anche e soprattutto per rafforzare lo spirito. Siccome mi piaceva questo aspetto ‘spirituale’ dell’allenamento, l’avevo già ricercato nella pratica del judo. Quando è arrivato il maestro Koike a Milano, io avevo letto che in Giappone facevano il kan-geiko, l’allenamento invernale. Per una settimana o dieci giorni caloriferi spenti, scaldabagno spento, acqua fredda, finestre aperte, allenamento dalle cinque alle sette, durissimo. Mi ricordo che sono andato da Koike a suo tempo e gli ho chiesto: “Perchè non facciamo il kan-geiko?” Lui mi guarda con aria schifata e dice: “No, italiani niente kan-geiko!” “Guardi che gli italiani sanno essere anche più tosti dei giapponesi!” Lui fa: “Vediamo…” E il giorno dopo ha messo fuori il cartello “Kan-geiko”. Mi sono preso le maledizioni di tutti gli altri ed è cominciato il kan-geiko. Tutte le mattine l’abbiamo fatto, il maestro Koike è rimasto molto sorpreso e alla fine mi ricordo che è arrivato con una sveglia grande così. Mi ha regalato la sveglia come ricordo del fatto che ogni mattina dovevamo svegliarci alle quattro.
Allora, chiaramente, quando è arrivato il maestro Shirai, ho chiesto anche a lui: “Maestro, facciamo il kan-geiko?” Lui dice: “Bene, facciamolo!”, e sorride. Lui faceva così: “Oggi facciamo per due ore solo seiken chokutsuki in kibadachi. Da impazzire. Il giorno dopo arrivano due canadesi… Arrivano questi due maestri canadesi e il maestro dice, sornione: “Anche loro vengono a fare il kan-geiko stamattina. Io detto ‘Meglio non venire’ ma loro volevano venire lo stesso”. Quel giorno c’erano i calci. Noi abbiamo cominciato piuttosto morbidi ma i due canadesi, non sapendo che tutta la lezione sarebbe stata sui calci, hanno cominciato forte, una vera follia. Dopo mezz’ora erano sul pavimento in preda ai conati di vomito, non sono riusciti a continuare
Una volta, eravamo soli io e lui in palestra, mi ha proposto di allenarci insieme. Io tutto contento ho accettato non sapendo cosa mi aspettava: mi ha fatto fare cento Bassai dai. È un incubo, perché incominci anche non troppo forte, però man mano che vai avanti devi sempre aumentare la potenza. E li ha fatti tutti anche lui, non è che dicesse : “Fai cento bassai dai” e poi stesse a guardare. Arrivato a un certo punto, vero il trentesimo kata, pensi: “Non arriverò mai”. Dopodiché entri in una specie di trance, e alla fine è il corpo che va, poi a un certo punto hai dei crolli improvvisi…impari a conoscerti veramente, con tutte le tue debolezze. Dici a te stesso: “Basta…non ce la faccio più…impazzisco!” ma poi senti la voce del maestro: “Ancora! Più forte! Ancora!…
– Mi vuoi parlare del leggendario “corso istruttori” dell’A.I.K.?
– Al primo corso istruttori eravamo in otto. C’erano Abbruzzo, il gruppo di Bologna (Baleotti, Perlati, Balzarro e Guaraldi), io, Parisi e Ottaggio di Genova. Poi l’anno dopo hanno cominciato a venire Zoia, Montanari e tutti gli altri… Ma quell’anno più che botte io non ricordo. Dopo ogni lezione tornavo a casa con un occhio nero. Il corso istruttori erano solo botte, jiu kumite. Mi dicevo: “Ma che corso istruttori è?”
All’inizio – mi ricordo la prima lezione, davanti a tutti, il maestro che dice: “Jiyu kumite, Fassi venire!”. Io vado su, mi metto in guardia, pam, un maegeri in pancia, vado giù. Mi rialzo, un mawashigeri in faccia…io penso: “Ma non bisogna controllare?” Mi arriva un cazzotto qui sul naso, vado giù di nuovo. Allora ho pensato: “Forse vuole vedere il mio spirito”. Allora mi sono rialzato e gli sono andato addosso come una belva. Chiaramente non so cosa mi ha fatto, di karate non ne sapevo molto ma di judo sì così l’ho preso, gli ho fatto fare un bel volo. Lui arrivando a terra mi ha colpito(controllando) e scherzosamente mi ha detto: “Ippon” però poi ha aggiunto “Bravo, bravo”.
Ricordo anche un altro corso istruttori, lui lo chiamava così ma non è che ci spiegasse qualcosa: il corso istruttori erano solo botte a non finire. Per cui era un incubo andarci, e poi gli altri erano tutti tosti e più giovani di me. Ricordo una volta che c’era stata una dimostrazione al Palalido, Balzarro non aveva controllato un colpo e aveva dato un pugno tremendo a uno…E il giorno dopo avevamo il corso istruttori, il maestro Shirai fa fare kumite e come primo partner sceglie proprio Balzarro e lo colpisce in pieno. Mi ricordo di aver visto gli occhi di Balzarro rovesciarsi e lui diventare bianco e andare giù come uno straccio. Poi è toccata a tutti gli altri. Falsoni, che era un grande combattente, ha reagito, ha cercato di contrastarlo, ma le ha prese ugualmente. Ricordo che dopo, nello spogliatoio, Falsoni con due monete cercava di raddrizzarsi il naso.
Io ero il più anziano, ero l’ultimo della fila, ho pensato: “Stavolta vendo cara la pelle”. Shiraicon me forse ha voluto strafare, è partito con mae tobigeri, io l’ho centrato in pieno con ushirogeri. Ero terrorizzato e ho pensato: “Adesso sono morto!”. Ho messo giù il piede e ho tagliato la corda. Lui mi ha inseguito per tutta la palestra finché mi ha preso, mi ha tirato giù il gi – mi ricordo che mi sono rimaste tutte le strisciate delle unghie per un sacco di tempo – e mi ha urlato “Non devi scappare!” Io gli ho risposto: “Maestro, cosa devo fare?” Alla fine però non ha infierito, si è messo a ridere e ha detto: “Bene, bene”.
Questo spiega un po’ lo spirito che c’era, creato anche da un ambiente duro. Oggi è molto diverso, oggi non si potrebbe fare più. Allora era una roba da impazzire, ci si rovinavano le ossa e le articolazioni con giri a saltelli, era una roba folle, però si diceva “Per lo spirito va bene”.
La squadra dell’AIK vincitrice agli Europei di Vienna del 1968: Zoja, Parisi, il M° Shirai, Balzarro, Baleotti, Ottaggio, Urtis.
– Fuori dalla palestra incontravate il maestro Shirai?
– Lo vedevamo anche fuori, però era più duro di adesso. Poi si è molto addolcito, ultimamente è parecchio tempo che non lo vedo ma è molto diverso rispetto a una volta, e giustamente. Quello era un periodo in cui bisognava fare così, il karate è esploso in fretta anche grazie a questa durezza…Con questo sistema i primi che sono venuti fuori sono diventati bravissimi in poco tempo: già dopo due anni un Falsoni, un Montanari erano già bravissimi, anche perché loro avevano molto più tempo per allenarsi Oggi, prima di vedere uno di quel livello, ci vuole molto più tempo.
Anche se la spiegazione era netta: “Zenkutsudachi è così, kokutsudachi è così”, non osavi sbagliare: ti arrivava un maegeri in pancia. Se il kibadachi non lo tenevi, ti arrivava un calcio alla gamba, per cui c’era un’attenzione moltiplicata per dieci e questo ha fatto in modo che in brevissimo tempo si creassero dei campioni. Il maestro Shirai diceva: “Io penso: faccio uno molto bravo, poi penso: adesso faccio questo più bravo di lui”, quindi creava tra i suoi allievi una continua competizione. Dopo due anni-tre anni di allenamento sembrava di vedere in azione dei giapponesi.
-In che rapporto era il Maestro Shirai con gli altri maestri giapponesi?
– Quelli della JKA ogni tanto si incontravano, purché ci fosse sempre una netta separazione dei ruoli: tu ti fai i tuoi affari, io mi faccio i miei. Mi ricordo sempre che il Maestro Shirai diceva: “Adesso viene il maestro tal dei tali che vi fa lezione. Lui vi farà vedere dei kata magari un po’ diversi da come li faccio io. Quando vi allenate con lui fate come dice lui, quando vi insegno io fate come vi dico io”. Era molto più profondo invece il suo rapporto col maestro Kase, lo considerava sempre il suo maestro, allo stesso livello di Nishiyama. Infatti, quando Kase ha terminato il contratto con la federazione belga ed è rimasto senza lavoro, il maestro Shirai lo ha invitato a Milano a stare con lui. Ha preso in affitto una seconda palestrina in via Piacenza e il maestro Kase insegnava a un gruppo e Shirai insegnava a un altro gruppo. Dopodiché io sono andato dal maestro Pléè e gli ho detto: “Ho conosciuto questo maestro, anche se è della JKA non è un rompiballe, è un grandissimo maestro, te lo porto su. Abbiamo fatto uno stage insieme e il maestro Plée lo ha preso a insegnare a Parigi. In seguito il maestro Kase ha invitato il maestro Kenji Tokitsu, che era terzo dan della JKA. Quando è arrivato in Francia io l’ho conosciuto, era stato allievo del maestro Kase e faceva karate un po’ come lui, ma in seguito ha voluto staccarsi e creare una propria organizzazione.
-Quando e perché ti sei staccato dal maestro Shirai?
– Nel 1976 Perlati mi ha parlato del m° Chang. Aveva incontrato questo maestro cinese con cui si allenava a Bologna e faceva tai chi chuan e shaolin. Perlati trovava interessante questa esperienza perché, diceva, sono i progenitori del karate. Così, grazie a Perlati, ho conosciuto il maestro Chang che poi ho invitato a Milano. Il Maestro Shirai era perfettamente d’accordo, anzi all’inizio il maestro Chang era nella Fesika, praticamente si erano messi assieme. A un certo punto però, quando si è messo d’accordo con il gruppo di Roma, Shirai mi ha detto: “Guarda che adesso devi mandare via il maestro Chang, perché a Roma hanno un altro stile di kung fu, se vuoi fai con loro”. Io gli ho risposto: “A me non interessa il kung fu, a me interessa il maestro Chang”. Allora il maestro Shirai mi ha detto: “Allora tu non puoi più venire da me, perché noi facciamo federazione con quelli di Roma”. Questo è stato il motivo della rottura, però io sono sempre rimasto in buoni rapporti con lui, è lui che mi ha mandato via: prima dell’unificazione con la Fik il maestro Chang gli andava benissimo.
Anche con il maestro Tamano (che insegnava kobudo e Goju-ryu di Okinawa) Shirai non ha mai avuto problemi, anzi diceva: “Facciamo kobudo anche noi” e difatti veniva anche lui a lezione e ha praticamente obbligato un gruppo dei suoi allievi a fare kobudo. Si era messo la cintura bianca perchè diceva: “Io sono cintura bianca di kobudo”. Io stesso ero imbarazzatissimo ma il maestro Shirai mi diceva: “Non posso imparare kobudo se metto cintura nera. Tu Fassi sei già cintura nera di kobudo, allora io imparo da te, tu sei il mio maestro”.
Yoko-tobigeri di Parisi su Balzarro (stage di Riva del Garda 1967)
-Come erano ai tuoi tempi gli esami di Dan?
– Erano molto seri, bisognava fare tutto il programma, non erano ammessi errori. In genere però quando ‘lui’ diceva: “Puoi fare l’esame” significava che ti giudicava pronto. C’erano comunque periodi in cui c’erano parecchi bocciati e altri di maggior indulgenza. Quando ho fatto l’esame di 5° dan a Venezia c’era tutta la nazionale. Io mi ricordo che in seguito a un colpo non controllato avevo il labbro aperto e fiotti di sangue che venivano giù. Ho dovuto fare kumite con Perlati tenendomi stretto il labbro così,tra le dita di una mano. E allora ho pensato: “Cosa faccio? Con una mano sola non posso difendermi, devo attaccare!” Mi sono avventato contro di lui…e questo a Shirai è piaciuto moltissimo, in quell’esame ha promosso solo me e Baleotti, gli altri erano arrabbiatissimi. Il dolore più forte però l’ho provato quando poi sono andato al pronto soccorso, a farmi dare i punti senza anestesia. Ancora adesso ho l’interno della bocca in parte anestetizzato da quel taglio.
-Tra i compagni di allenamento chi ricordi con particolare simpatia?
– Molti avevano un po’ lo spirito del campione, altri invece erano molto umani, ad esempio Abruzzo e Baleotti. Altri invece volevano emergere, quando facevano kumite ti toccavano per farti vedere che erano più forti…Anche Tammaccaro ha sempre mostrato estremo rispetto per me perché ero stato il suo primo maestro. Così Perlati e Balzarro. In generale i primi allievi , Parisi, Ottaggio, quelli di Bologna, erano estremamente positivi. Con Falsoni ero molto amico, però nel kumite era molto aggressivo, anche con gli amici. Fugazza era straordinario, nel kumite era un vero signore. La seconda generazione, forse per bisogno di emergere e farsi strada, era più aggressiva.
– Secondo te qual è la ragione per cui il karate ha perso parte della sua presa sulle nuove generazioni?
-Forse tutte queste lotte interne l’hanno danneggiato, ma di per sè il fatto che ci siano tanti stili, che non siano uniti, è un fatto naturale ed è sempre stato così nelle arti marziali tradizionali. Uno dice: “A me piace il M° Shirai, seguo lui, quello è il mio maestro, poi non mi importa di tutto il resto”. Un altro dice: “No, a me invece piace questo stile, seguo quello”: dov’è il problema? Se invece andiamo sul versante sportivo, allora c’è bisogno dell’unificazione. Secondo me il problema è proprio questo, che oggi il karate è diventato troppo sportivo. Anche chi dice “tradizionale” in realtà non fa karate tradizionale. Il maestro Kase non ha mai fatto una gara in vita sua, non sapeva neanche che esistessero, infatti diceva: “Gara come gioco, fare per pubblicità” e roba del genere. Però ornai la gara è diventata la cosa essenziale e così si è snaturato tutto. La stessa cosa è successa nel kendo: adesso quello che importa è il colpo velocissimo, che arriva, però quel colpo lì non avrebbe nessuna efficacia se fosse fatto con una katana vera. Miyamoto Musashi diceva: “La velocità non è importante, importante è il tempo di esecuzione”. Oggi se la tecnica non è completa non importa, così poco alla volta l’arte si snatura. Nella gara cosa è importante? Vincere! Nell’arte marziale invece è essenziale non perdere, non morire, la difesa è più importante. In una gara di karate, se non c’è contatto, chi se ne frega della difesa? Tanto lui non dovrebbe toccarmi, quindi io non penso a difendermi, penso solo ad attaccare. Secondo me in tutte le arti marziali c’è questo scontro tra la mentalità marziale e la mentalità sportiva. All’inizio nel judo c’era una sola categoria, perché anche il piccolino doveva battere il grosso, poi in realtà non era così perché il grosso alla fine vinceva, se aveva la tecnica. Però un “piccolino” di judo era terribile perché pesava 60 chili e doveva combattere contro chi ne pesava cento. A un certo punto qualcuno ha detto: “Non è giusto, cominciamo a fare le categorie di peso”. È importante che vincano in tanti, che ci siano tante coppe, che tante società vincano, così sono contenti di appartenere alla federazione, tutti hanno vinto e ci sono un sacco di medaglie.
Si segue la moda dello sport moderno, anche nella specializzazione. Ad esempio nel judo si comincia a dire: “Quali sono le tecniche veramente efficaci? Ce ne sono poche: uchimata, osotogari, questa, quell’altra. Allora delle 40 tecniche di base del judo solo 3 o 4 sono importanti, studiamo quelle 3 o 4. Poi abbiamo cominciato a specializzarci su una tecnica sola: una, una una, quella deve diventare la tua tecnica, così succede che per tutto il giorno uno fa una sola tecnica. Da un certo punto di vista può andare bene, con questa tecnica posso proiettare anche il campione del Giappone di judo, però tutto questo snatura e impoverisce il patrimonio tecnico delle arti marziali.
Kumite dimostrativo tra i maestri Kase e Shirai a Riva del Garda
– Questo sembra chiarire la tua posizione sull’agonismo.
Io non sono contro la gara. E’ l’unico modo per misurarti con qualcuno, ad un certo punto della tua vita devi fare questa esperienza, però oggi si esagera perché si finisce per avere solo quell’esperienza. Io ai bambini non faccio più fare le gare perché alcuni di loro (ad esempio Paolo Lorini) sono diventati campioni italiani, però ho visto altri bambini piangere disperatamente perché perdevano, con i genitori che gridavano ai propri figli “Ammazzalo, ammazzalo!” Allora se si fanno delle gare per i bambini devono vincere tutti, un premio per il più bravo, uno per il più assiduo e così via. E’ però importante rendersi conto che al 90% della gente che si iscrive nelle palestre non gliene frega niente delle gare, sono portati all’agonismo dai loro istruttori. Vengono a fare karate o perché ci va l’amico, o per imparare a difendersi, o magari per diventare Bruce Lee. Andando avanti quei pochissimi che magari sono dotati vincono una gara, trovano soddisfazione nell’agonismo. Però, se questa è la loro unica motivazione, è sbagliato, non è una cosa completa: passa l’età, non vinci più e interrompi la pratica. Io, all’età di 71 anni compiuti, malgrado i miei impegni professionali, mi alleno ancora un’ora al giorno e non penso certo di smettere!