Tokio mondiali 1973 Italia 2° Classificata

 

di Luigi Zoja

L’accoglienza calda e festosa che ci riservarono gli atleti giapponesi al nostro arrivo all’aeroporto di Tokyo ci fece dimenticare all’mprovviso la fatica del viaggio che le lunghe attese dovute agli scioperi in Germania avevano reso ancor più stancante.Erano là ad attenderci da parecchie ore tutti gli atleti dell’Università di Komazawa, abbottonati nella loro divisa scura, con i capelli a spazzola, cortissimi, che li rendevano a prima vista tutti uguali. Di fronte alle loro lunghe e commosse acclamazioni ci sentimmo come sollevati e trasportati su una corrente di antiche emozioni. Molti maestri giapponesi si erano ritrovati dopo tanti anni: si guardavano, si sorridevano con gli occhi, si stringevano le mani con un calore, un trasporto che ci stava accomunando tutti: in quei momenti sentimmo di non essere degli estranei.

Tutte le squadre furono alloggiate all’ “Olympic memorial youth center” per i primi quattro giorni. Qui ragazzi provenienti da tutto il Giappone e da ogni parte del mondo vivono studiando e allenandosi sotto una disciplina molto severa. Tutti gli appartenenti al Centro devono adattarsi alle sue regole e così anche noi ci alzavamo alle sei del mattino e spegnevamo la luce della stanza alle dieci di sera.

Qui cominciammo a sentir tirare i capi di fili misteriosi che alla fine avrebbero rivelato l’opera di un grande tessitore: un forte spirito di squadra, una grande determinazione di vincere il secondo posto ai mondiali!

Il primo giorno di allenamento fu per tutti un completo disastro: sembravamo inebetiti, bloccati nel fisico. Il calcio, il pugno erano lenti,deboli, mancavano di energia: eppure ce la mettevamo tutta! Io personalmente non capivo bene. Il Maestro Shirai ci aveva detto di stare tranquilli, che avremmo fatto un allenamento leggero, giusto per scaldarci un po’; invece eravamo stravolti,con la lingua fuori, a vedere i nostri colpi che andavano via via infiacchendosi. Noi imputavamo il tutto alclima,molto caldo e umido, soprattutto in questa stagione in cui soffia il monsone, e al cambiamento degli orari (alle otto del mattino ci trovavamo tutti assonnati, per noi in Italia era mezzanotte).Invece il nostro fisico andava benissimo, era la mente che si stava rilassando, il nostro spirito che stava mollando di fronte alle prime difficoltà di adattamento.

Trovammo anche difficoltà nell’adattarci all’alimentazione diversa, gli italiani si sa sono abituati alla buona tavola.

Occorreva sbloccare il fisico, distruggere quella patina che si era formata per il cambiamento delle abitudini.

Il lunedì pomeriggio iniziammo gli allenamenti all’Università di Komazawa: tutte le squadre europee vi erano invitate. Il tragitto dal centro all’università richiese più di un un’ora e un quarto tra metro e autobus, in mezzo ad un traffico congestionato e ad un’aria piena di gas di scarico.Vi arrivammo “cotti”, come dopo un allenamento. Ma durante quel tragitto mi tennero compagnia ricordi bellissimi di Komazawa, che risalivano due anni addietro. Ritornandoci ora dopo tanto tempo ebbi la sensazione di ritrovare tutto immutato: le piccole casette isolate da muri di verde, i sumoisti coperti solo dalla fascia di cuoio usata nei combattimenti, imponenti nella loro mole ma agilissimi, giocavano a baseball.Mi girai, incontrai lo sguardo di Baleotti, lessi nel suo sguardo lo stesso pensiero: era come se due estremi si fossero congiunti annullando in un attimo tutto ciò che stava in mezzo: non erano passati due anni, caro Bruno, ma ieri, al massimo una settimana fa, eravamo lì.

Rivivemmo sensazioni che per due anni come assopite, affievolite da nuovi eventi, ora esplodevano in noi con tutta la loro immediatezza, in tutta la loro limpida trasparenza. Era come se tutto ci avesse aspettato: i ragazzi alle finestre dell’università, i grandi cartelli e gli striscioni di benvenuto scritti in giapponese, la palestra dei sumoisti col suo pavimento in terra battuta ed il gran cerchio al centro, immensa e misteriosa nella fioca luce che penetrando a stento tra le fessure delle travi del tetto, dava un’atmosfera tutta mistica ai lottatori sudati che si spingevano faticosamente, si scontravano con durezza, i gesti violenti, senza un attimo di pausa. Anch’essi ci avevano aspettato.

Quel pomeriggio trovammo tutti gli amici europei. Di fronte a noi, seduti in una lunga fila, in silenzio, ci guardavano, gli sguardi sinceri, i più grandi maestri del karate mondiale. Li conoscevamo quasi tutti, ci accomunavano lunghe ore di allenamento. Non erano “inviolabili figure carismatiche”, “temibili mostri sacri”, erano uomini accomunati a noi in uno stesso spirito di reciproca stima e amicizia ed erano da noi rispettati per il loro alto ideale e le loro qualità morali.

Fu durante uno di questi allenamenti che l’amico Baleotti, il capitano della squadra italiana, si infortunò ad un ginocchio. Il fatto di non poter più contare su uno dei nostri elementi più validi invece di abbatterci ci fu di sprone. Fu quasi come se il suo spirito, il suo grande coraggio ela sua determinazione, doti che lo caratterizzano, fossero rifluiti in ciascuno di noi. Un tacito patto ce lo leggemmo negli occhi, amico Baleotti: avremmo combattutto anche per te. Sappiamo che hai sofferto il giorno dei campionati, seduto ai bordi del quadrato,mentre ci vedevi combattere, ma idealmente ognuno di noi ti aveva al suo fianco mentre partiva all’attacco.

Fonte YOI RICORDI DEL MONDIALE 1973, di Luigi Zoja (per un’interpretazione marziale dell’agonismo)

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