La mia prefazione all’edizione italiana di “The Essence of Karate” di Gichin Funakoshi
Eventskarate 08 maggio 2019
Bruno Ballardini
I testi raccolti in questo volume non sono capitoli di un libro scritto da Funakoshi ma estratti di articoli che pubblicò
negli anni ’30 su alcune riviste giapponesi per presentare il karate al grande pubblico e promuoverlo come nuova arte marziale tradizionale giapponese. È interessante scoprire in che modo Funakoshi riuscì a costruire dal nulla questa “tradizione”, visto che il karate è patrimonio culturale di Okinawa, terra che da sempre aveva avuto solidi rapporti culturali e commerciali con la Cina ed era rimasta indipendente anche dopo l’invasione del clan dei Satsuma nel 1609, subendo concretamente la dominazione giapponese solo dal 1879 in poi. In quei 270 anni il karate antico (o Tode) ebbe il massimo sviluppo e divenne parte fondante della cultura del regno di Ryukyu.
Funakoshi scrisse moltissimo, anzi si potrebbe quasi dire che in questa attività abbia investito metà del suo impegno, essendo l’unico Maestro a Okinawa ad aver sistematizzato e semplificato il karate antico non solo ai fini dell’insegnamento ma soprattutto in funzione della sua diffusione. In realtà, il vero “padre del karate moderno” fu Anko Itosu, uno dei suoi due maestri, quello con cui paradossalmente studiò di meno. È di Itosu, infatti, l’idea di rendere di dominio pubblico lo studio del karate fino a quel momento insegnato segretamente e a piccoli gruppi di adepti scelti con cura dai maestri. E sempre Itosu fu colui che per primo riuscì a introdurre il karate nell’educazione scolastica nel 1905. Funakoshi fu fortemente ispirato da quest’idea e la proiettò verso il futuro, in una prospettiva più ampia. In breve, maturò l’intenzione di raccogliere, per quanto possibile, l’eredità storica del karate antico, quello precedente a Itosu, e di esportarlo in Giappone dove avrebbe potuto avere sicuramente la massima diffusione.
Funakoshi aveva iniziato la pratica del karate intorno al 1880, quando ancora era insegnato segretamente. Raccogliere più kata per poterli tramandare restò un’impresa difficile anche diversi anni dopo che il karate era stato reso accessibile a tutti, perché ciascun maestro ne conosceva al massimo quattro o cinque, come accadeva normalmente anche nelle scuole cinesi classiche di Chuan Fa. Era una caratteristica propria del metodo antico. Come ebbe a scrivere nel 1922, in Ryukyu Kempo Tode: “I maestri del passato usavano coltivare un piccolo campo ma lo aravano in profondità. Gli allievi di oggi dispongono di un campo più ampio ma lo arano soltanto superficialmente”. Se dunque per la sua pratica personale Funakoshi si era sempre concentrato su cinque o sei kata, prima di stabilirsi definitivamente in Giappone ne raccolse complessivamente quindici, un numero che all’epoca era considerato già enorme. In questo approccio “enciclopedico” lo seguì l’amico Kenwa Mabuni che, per la sua scuola, stabilì addirittura un curriculum di circa settanta kata, avendo la pretesa di preservare l’intero corpus dello Shuri-te, del Tomari-te e del Naha-te messi insieme. Una mutazione apparentemente inavvertibile, che invece avrebbe avuto conseguenze sul piano tecnico, poiché andava a pregiudicare la qualità della pratica. Fu quindi giocoforza che, per mantenere uno standard di apprendimento accettabile, Funakoshi e Mabuni dovettero apportare significative modifiche e semplificazioni ai kata e a molte tecniche. Era iniziata la modernizzazione.
Jigoro Kano, aveva già fatto la stessa cosa con il judo, prendendo tecniche appartenenti all’antico ju jutsu, semplificandole e ricodificandole in un sistema moderno. Ma si trattava comunque di un patrimonio culturale giapponese. Funakoshi, invece, volle ricodificare l’arte marziale della sua terra ed esportarla in Giappone, non avvedendosi del pericolo di tagliare le sue radici. Alla morte del suo assistente Takeshi Shimoda, nel 1934, lasciò le redini della scuola in mano al suo terzogenito Yoshitaka, di cui approvava l’operato. Poco importa se suo figlio apportò ulteriori modifiche che di fatto avrebbero cancellato ogni legame residuo con l’arte marziale originale: per Funakoshi, il fine giustificava qualunque mezzo. Ma Yoshitaka si spinse parecchio più in là del padre, introducendo nei kata posizioni che appartenevano al kenjutsu e modalità di praticare il combattimento analoghe a quelle della spada (come il kihon kumite e il jiyu kumite), “giapponesizzando” definitivamente la disciplina. Il karate era pronto per diventare uno “sport marziale” di massa come ormai erano il kendo e il judo.
Così, nel 1949, fu fondata la Japan Karate Association. Alla morte di Funakoshi, avvenuta nell’aprile del 1957, un episodio gravissimo avrebbe segnato il destino della Scuola. Secondo le volontà del primogenito Giei Funakoshi, i funerali avrebbero dovuto essere organizzati dagli allievi del vecchio dojo,[1] riuniti nello Shotokai. Tuttavia, un’altra fazione di allievi si stava preparando a prendere il potere: Masatoshi Nakayama pretendeva che fosse la JKA a organizzare il funerale trasformandolo in un grande evento mediatico per pubblicizzare il karate della sua associazione. A questo si opposero con forza Shigeru Egami e gli ultimi allievi diretti. E il boicottaggio dei funerali di Funakoshi da parte di Nakayama aprì la strada allo strappo con lo Shotokai, e allo “scippo” con un’abile operazione di branding: la “marca” Japan Karate Association, unitamente al logo con i colori della bandiera giapponese, comunicavano inequivocabilmente che lo Shotokan della JKA era “l’unico autentico karate giapponese”. La multinazionale che costruì per lanciarlo su scala globale diffuse un karate sportivo che non aveva ormai più nulla a che fare con quello insegnato da Funakoshi padre, ed estremizzava ulteriormente quello del figlio. Come se non bastasse, in questa strategia di espansione e ovviamente per motivi d’immagine, con un certo cinismo Nakayama propose a Genshin Hironishi, presidente dello Shotokai, di passare alla JKA. Hironishi disse che avrebbe preso in considerazione la cosa soltanto se lui fosse andato a chiedere scusa alla famiglia Funakoshi. Per tutta risposta Nakayama tagliò definitivamente ogni rapporto con il suo ex amico e compagno di pratica. Difficile pensare un’ipocrisia più grande di quella con cui si continuò a esibire la foto di Gichin Funakoshi sugli shomen di tutti i dojo della JKA dopo questo gravissimo atto e, nello stesso tempo, a diffondere un karate lontano anni luce dagli intendimenti del fondatore. Ma in tempi moderni prevalgono le logiche del marketing e lo Shotokan era da tempo ormai destinato a diventare un’altra cosa. Il sogno di Funakoshi finiva qui.
Le pagine che seguono raccontano di un uomo, del suo grande sogno e di quanta energia profuse per realizzarlo. Se c’è una qualità che meglio rappresenta il carattere di Gichin Funakoshi, questa è sicuramente la sua immensa, irriducibile testardaggine. Il venerabile Gichin, come lo chiama il nipote nella postfazione, fu l’unico uomo della sua epoca che, per incrollabile determinazione, avrebbe potuto portare a compimento le idee di Anko Itosu. Di certo, né Itosu né Funakoshi avrebbero mai potuto immaginare quello che i giapponesi avrebbero fatto della loro eredità dopo essersene appropriati. L’unico maestro rimasto fedele allo spirito di Funakoshi, pur facendo parte della JKA, è stato Hirokazu Kanazawa, come si può evincere dalle pagine toccanti della sua introduzione. E tuttavia, proprio per restare fedele a quello spirito, Kanazawa decise in seguito di uscire dall’organizzazione. Oggi, dopo la morte di Nakayama, lo Shotokan si sta dividendo in scuole concorrenti che rivendicano ciascuna l’ortodossia dello stile. Entro una generazione nessuno sarà più in grado di stabilire quale sia lo Shotokan “autentico”. Il sacrificio di una vita, raccontato in questo libro, rischia di essere stato vano se non si riuscirà a riportare la Scuola alle sue origini.
Bruno Ballardini
[1] Distrutto da un incendio durante il bombardamento di Tokyo nel 1945.
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