Come trasferire il kata nella realtà della difesa personale

eventskarate 07/09/2019

Ciro Varone

La difesa personale è sempre stata il cruccio dell’uomo che,

spinto da esigenze di sicurezza personale e collettiva, ha cercato di sviluppare un metodo, un sistema per difendersi che potesse realmente tornargli utile nei momenti di estremo pericolo.
In questa spasmodica ricerca emerse, e ancora oggi compare, il problema dell’ efficacia che non è sempre dimostrabile in un contesto controllato e simulato come potrebbe essere il dojo.

Nasce in tal senso la necessità di allenarsi il più realisticamente possibile, ma, sopratutto, emerge l’esigenza di “cosa fare” e, ancora di più, sul “come farlo” quando si presenterà il momento di mettere in atto la nostra difesa.
Gli esperti sanno che qualsiasi tecnica, qualsivoglia sistema di autodifesa non valgono nulla se l’uomo che si è addestrato a tale metodo non sia preparato a reagire mantenendo la calma, l’esperto non pensa mai “se dovesse succedere a me” egli, pensa “quando succederà a me”, chi si è trovato in situazione di alto rischio è consapevole che la migliore delle difese è racchiusa nella nostra mente e l’intelligenza è la migliore delle armi.

Quindi creare sotto l’aspetto tecnico un sistema di autodifesa tecnicamente completo e congeniale non è molto difficile, nondimeno è assai più difficile trasferire gli stati emozionali, le condizioni di paura e di emotività ad altre persone, facendogli rivivere gli stessi istanti pericolosi dello scontro reale; per tale motivo esistono due forme di kata, quello esterno e quello interno.
Pertanto nasce l’esigenza di trovare un metodo idoneo a tale fine che è anche l’unico in grado di assicurare la sopravvivenza.

Quanti si sono trovati in circostanze di sopravvivenza, quindi non in un combattimento che per quanto cruento possa essere è pur sempre regolato e controllato, sanno, come del resto sapevano i nostri maestri capiscuola, che in quei momenti entrano in gioco “le distorsioni percettive” che cambiano il modo di vedere, udire, respirare e muoversi, chi ha avuto modo di sperimentare tale situazioni è ben conscio di questo effetto, pertanto nei kata antichi molte tecniche erano volutamente antiestetiche per i nostri parametri sportivi di gestualità agonistica: i maestri avevano sperimentato che in determinate situazioni perdiamo molte delle capacità sottili e ne acquisiamo altre, come correre o saltare, combattere o bloccarsi, di conseguenza nello studio dei kata, oltre all’acquisizione della tecnica corporea, era fondamentale concentrarsi su quello che succedeva “dentro” al praticante quando lo stesso si trovava in uno stato di tensione fisica che andava oltre alla soglia di tolleranza.

Da questo contesto sorse anche il principio di “un kata ogni tre anni”, in aggiunta a questo gli allenamenti non si formalizzavano sulla sola ripetizione per approfondire il gesto tecnico, piuttosto il presupposto era di snervare il praticante fino a ricreare le stesse condizioni che si manifestavano nella difesa personale.
Il maestro Funakoshi nel suo testo fondamentale spiegava che, nei suoi allenamenti notturni, il suo sensei Itosu non era mai soddisfatto delle sue prove e lo incitava a dare sempre di più, egli diceva ” Funakoshi ancora una volta, ripeti, ripeti ancora”.

Dunque, il kata è qualcosa di più di una concatenazione di gesti esso è il totale di una probabile alchimia di energia che racchiude l’intelletto, il corpo, l’emotività e la conoscenza dell’essere.

In questo testo abbiamo potuto capire che i kata si dividono in due modelli, il primo tiene conto dello sviluppo delle competenze tecniche, e fisiche e mira agli aspetti formali del combattimento, il secondo conduce all’apprendimento e interiorizzazioni della forza interna, focalizzandosi sull’energia profonda e sulla respirazione che è l’unico strumento che ci permette di rimanere quieti d’innanzi al pericolo.

Per molti praticanti le differenze tra un kata esterno e/o interno sono irrilevanti, personalmente, per quanto ho potuto direttamente verificare, non può esistere il kata interno senza avere acquisito il kata esterno, mentre è possibile apprendere le tecniche esterne di un kata ma non può essere definito kata, ma solo un accozzaglia di tecniche prive di senso che sono prive del messaggio originale.

Quindi il kata esterno e quello interno sono le due facce della stessa medaglia, disgiunti entrambi non hanno nessun valore formativo.
La forma esterna del kata struttura e prepara il corpo umano a scattare a reagire con forza e velocità, il kata interno prepara e configura l’energia interna del praticante controllandone le azioni mentali ed energetiche.

Lo studio completo delle due proprietà del kata avviene progressivamente e in modo naturale solo se l’adepto ne è consapevole e, in piena coscienza, trasmette al gesto la mente e la mente la trasferisce nel gesto, questo graduale sviluppo del kata accresce la fisicità e la coscienza interiore, di modo che la realtà diventa intuito e la percezione è uno stato superiore di reggere il fisico.

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