Memorie del mondiale JKA 24 Giugno 1973

Fonte: http://www.mushotoku.it/Index_uso.php?pubblica=AA_FESIKA/Sergio_Beronzo.php

Ricordo poco della gara vera e propria. Forse perché l’adrenalina era alle stelle o semplicemente perché col passare degli anni i ricordi si fanno vaghi. Ma le emozioni no. Quelle sono ancora vivide nella mia mente e, soprattutto, nel mio cuore. Certi momenti, come il primo ingresso al Budokan di Tokyo, con le tribune gremite di studenti, vestiti con le nere divise delle università che urlavano “ Oss Sempai “ o “ Oss Sensei” scandendolo ritmicamente come un suono primitivo di tamburi, mi fa ancora accapponare la pelle.
Si stava svolgendo infatti anche il campionato universitario e il colpo d’occhio con quegli stendardi verticali, sui quali spiccavano ideogrammi, che assolutamente non capivo, ma che erano esteticamente affascinanti e artisticamente notevoli, era quanto di più ammaliante e coinvolgente potesse accogliere un ragazzo di 22 anni che aveva gareggiato poche volte fuori dal Piemonte e, quelle poche volte, solo a Milano.
 Non ero neanche mai salito su un aereo e, quella prima volta, viaggiai per 26 ore, con le altre squadre europee, ammirando i fiordi norvegesi, sorvolando il polo nord con l’infinita distesa di ghiaccio, atterrando nella mitica Alaska di Zanna Bianca e arrivando, infine, stremato a Tokyo.
Lì, ad aspettarci, gli studenti di Komazawa con i maestri Nakayama (forse) e Kanazawa (di sicuro) con striscioni e “oss”. Dovemmo fare tutti un paio di gyakutzuki con kiai nella hall dell’aeroporto! Non lo trovai strano…eravamo in Giappone…ero sicuro, allora, che tutti praticassero karate! Ci trasferimmo nell’ex villaggio olimpico per un disguido sulle camere in hotel. Due sono i ricordi più intensi di quei due giorni. Il primo riguarda il mattino seguente quando sbagliammo mensa per la colazione ed entrammo in quella giapponese ritrovandoci immersi in una puzza di pesce fritto e salsa di soia da cui fuggimmo con lo stomaco in rivolta. Il secondo quando, non avendo ancora superato il jet lag, mi svegliai e andando in giro nei paraggi mi ritrovai nei viali del parco del Tempio Meiji Jingu.
Era mattino presto, ero solo, immerso nel silenzio di una meraviglia della natura curata da mani sapienti. Si udivano solo cinguettii tra le fronde di alberi giganteschi che costeggiavano un lungo viale ghiaioso tra i prati verdi. All’improvviso, da un sentiero nascosto dai cespugli, sbucò un monaco che senza scomporsi e in assoluto silenzio, attraversò il mio cammino, per scomparire nuovamente alla mia vista nel folto della bassa vegetazione.
Fu un’emozione che oserei definire quasi mistica. Mi rese consapevole che ero in un altro paese, che si trovava dall’altra parte della Terra, con una spiritualità che in me, totalmente laico, toccava comunque corde profonde per il legame che aveva con la natura. Chiaramente questa esperienza si perse completamente il giorno seguente quando ci trasferimmo all’Imperial Hotel, nel pieno del caos metropolitano. Da quel momento fummo presi dal vortice degli allenamenti presso l’università di Komazawa.

Con noi vi erano anche altri europei, forse danesi e tedeschi, non ricordo bene, perché la mia attenzione era tutta per la schiera di giapponesi che avevamo di fronte e con i quali avevamo l’ordine di non retrocedere mai e di picchiare sodo.
Un aneddoto curioso sul primo allenamento a Komazawa. Ero stato il più veloce a cambiarmi e mi recai subito verso la palestra che si trovava al primo piano. Sbirciai dalla porta e vidi una lunga fila di atleti giapponesi che attendeva schierata. Incerto, misi un piede sul parquet e immediatamente tutti urlarono un oss ad alta voce. Temendo che fosse rivolto a qualche Maestro importante, ritirai il piede e ancora risuonò il saluto. Allora provai ad appoggiare nuovamente il piede in avanti ed ecco ancora un oss corale! Devo confessare che lo rifeci due volte.

Quello che mi colpì maggiormente durante gli allenamenti era il rapporto più che sottomesso, direi quasi servile, che i praticanti giovani avevano con i sempai e i sensei. Stavano con lo sguardo rivolto a terra, tenendo un asciugamano piegato sulle mani tese, inchinando continuamente il capo con un sommesso oss finchè i superiori non si degnavano, senza nemmeno guardarli, di prendere l’asciugamano e tergersi il sudore dalla fronte. Lo stesso atteggiamento si ripeté la sera della cena Italia – Giappone.

Volevano ubriacarci col sakè brindando continuamente. Chi tra noi era abituato a bere alcolici anche più forti, non aveva problemi, altri come il sottoscritto o Fugazza, si limitavano a versare, non visti, nei vasi dei fiori i bicchieri della bevanda calda. A un certo punto i sempai, visibilmente ubriachi, non essendo più in grado di proseguire, chiamarono i kohai e, tenendoli stretti, li obbligarono a ingurgitare i bicchieri finché noi, impietositi, non smettemmo di versare loro sakè.

Durante l’allenamento noi, seguendo gli ordini del Maestro Shirai, tiravamo molto decisi e con poco controllo contro chi ci trovavamo di fronte.

Per me, essendo giapponesi, dovevano essere tutti bravissimi, e così, per non sfigurare, davo calci e pugni su quei poveretti che, quando retrocedevano, si trovavano alle spalle i sempai che li spingevano di nuovo in avanti. Le giacche dei karategi, quando ci spogliavamo, stavano in piedi da sole tanto erano fradicie di sudore, sia per il ritmo incessante dell’allenamento, sia per il clima caldo umido dell’estate giapponese. Andammo anche ad allenarci nella piccola palestra del Maestro Nakayama.
Nello spogliatoio dovevamo entrare due per volte talmente era stretto.
Lì combattemmo una coppia per volta mentre Nakayama e Shirai ci guardavano. Eravamo amici, compagni di allenamento ma i colpi erano reali e io, con Luigi Zoja, ci rimisi un dente! Ricordo, con allegria, una cena con vecchie geishe che ci imboccavano…un bagno nelle vasche comuni con l’acqua a 42° e che per lavarsi, prima di entrare, bisognava sedersi su bassissimi sgabelli, prendere l’acqua con le ciotole da rubinetti posti quasi sul pavimento e versarsele in testa!

Così, tra fatica, allegria e una perenne fame, passarono sette giorni e si arrivò alla gara.
Ero talmente emozionato che dimenticai la conchiglia in albergo e feci tutta la gara senza.
Paradenti non sapevamo neanche che esistessero e i guantini non li avevano ancora inventati.

D’altronde, dopo tutte le ore passate sui makiwara, perchè avremmo dovuto metterli?
Il Karategi sporco significava lavoro, fatica e impegno.
Meglio se macchiato di sangue…che fosse nostro o di altri non importava…era kumite!  

Con questo spirito affrontammo la gara e per salire su quelle pedane rialzate, bisognava isolarsi da tutto il contesto. Non esisteva altro se non l’avversario. Non importavano i colpi che si rischiava di prendere, contava solo arrivare per primo.

Sen no sen, go no sen, tai no sen erano termini di cui non conoscevo neppure l’esistenza. Non esistevano strategie…bastava combattere. Feci quattro combattimenti…Messico, Egitto, Sudafrica e Germania.
Persi e pareggiai…forse ne vinsi uno, non ricordo. Ma non ero solo…eravamo una squadra. Come i moschettieri…uno per tutti e tutti per uno.

Nella finale il maestro mi sostituì con Enzo Montanari ma contro il Giappone fu un secco 5-0.
D’altronde anche gli arbitri erano giapponesi.
Yahara fu sicuramente quello che mi impressionò di più per la velocità, l’agilità e lo spirito.

Mi ricordo dei giganti sudafricani con mani e piedi enormi, e lo sguardo freddo del mio avversario tedesco. Di questo ho ancora presente il livido scuro che mi fece sotto la cintura con un  maegeri che gli dettero per buono.

Quando finì eravamo vice campioni del mondo ed eravamo cambiati completamente. Io, per lo meno, ero maturato di più con quell’esperienza che con gli anni di liceo e di università. Avevo superato, sicuramente con incoscienza giovanile, prove il cui rischio, solo con il senno di poi, ho potuto valutare seriamente, ma che, allora, contribuirono sicuramente a formare la mia personalità.

Il resto, per me fu turismo, visto che né a Kobe né a Fukuoka dovetti gareggiare. Prima di partire da Tokyo, però, dovemmo ancora affrontare gli esami dan. Io per il secondo, gli altri per il terzo.

La commissione presieduta dal maestro Nakayama e dai maggiori responsabili della Jka, vedeva seduti anche tutti i maestri che allora conoscevo: Kanazawa, che nel 71 mi aveva dato il primo dan, Kase, Shirai, Enoeda, Ochi e altri di cui ora mi sfugge il nome.
Con noi provarono anche alcuni accompagnatori tra cui Buzzetti, di Torino, allora consigliere federale, che dette l’esame con me.
Nel kihon Ippon kumite, su attacco jodan, lo colpii in pieno volto. Ero troppo veloce per lui dopo tutti gli allenamenti che avevo fatto per il mondiale, e il risultato furono quattro punti esterni e tre interni al labbro inferiore.
Ma diventammo entrambi secondi dan.

Fu un’esperienza unica ed irripetibile proprio per lo spirito con cui l’affrontai, ricco di tutte le aspettative, i sogni e le illusioni che permeavano la mia passione giovanile per il karate, e che inevitabilmente, con il passare degli anni e le inevitabili delusioni a cui si va incontro conoscendo le persone anche sotto altri punti di vista, si vanno man mano perdendo.

Resta comunque la consapevolezza di aver fatto parte di una spedizione storica, con compagni straordinari e con un maestro per il quale, allora, avrei affrontato qualsiasi avversario.

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