Arriva poi quel giorno dell’anno: quello in cui mi tocca fermarmi e fare un respiro profondo.
Eventskarate 10 luglio 2020
Junho Park
Ripropongo l’orazione funebre che ho dedicato a mio padre non perché sia il miglior ritratto che potessi dipingere di lui ma perché è il più sincero di cui sono stato capace.
Auguri SJ Park, auguri papà
Dall’Hagakure letteralmente “nascosto dalle foglie”, il codice dei samurai: “Prendi con la massima leggerezza le questioni serie, prendi con la massima serietà le questioni leggere.”
Ma tornerò su questa frase più avanti.
Partirò, invece, dalle foto per descrivere mio padre. Guardate attentamente questa foto. Come poteva un uomo della sua statura e della sua corporatura spiccare il volo? Fisicamente non dotato e stilisticamente non impeccabile, si libera dalle zavorre per saltare in alto più di chiunque altro, incarnazione di potenza e forza di volontà.
Mio padre era così in tutto, non solo nel Taekwondo.
Il Taekwondo, sgraziato ma di forza ineguagliabile.
L’italiano, imperfetto ma sempre pungente.
I modi, burberi ma implacabilmente diretti.
Gli affetti, trascurabili per un bene superiore.
Le emozioni? Da nascondere “sotto le foglie” per non mostrare debolezze.
Non posso e non voglio parlare del dirigente o del maestro. Ci sono persone che hanno beneficiato più di me di questa privilegiata prospettiva. Io voglio restituirvi, se possibile, l’immagine dell’uomo nonché del padre che è stato per tutti noi. Sì perché se non fosse stato per lui, oggi forse sareste praticanti di Karate o di Judo. O probabilmente il Taekwondo sarebbe arrivato comunque con un altro maestro coreano. Ma, permettetemi di dirlo con un pizzico di presunzione, sarebbe stato certamente diverso. Oggi siete forti e rigogliosi e venite a piangere il Presidente Park, non solo per consolare la famiglia Park, ma soprattutto per farvi coraggio e stringervi attorno alla famiglia FITA che perde, il suo primo maestro, fondatore e patriarca, instancabile esempio di virtù, onestà, e dedizione. E di questo mio padre non potrebbe essere più orgoglioso.
“Prendi con la massima leggerezza le questioni serie, prendi con la massima serietà le questioni leggere.”
Mio padre, pur non conoscendo questa citazione, era esattamente così.
Spesso ha sofferto, come capita a tutti nella vita, ma con nobile contegno e ironia. Sempre con quel sorriso sornione di chi guardandoti con bonaria e placida indifferenza, nasconde un’intuizione sottile. Nei momenti in cui era lecito disperarsi ha sempre mantenuto la sua calma olimpica e il suo sarcasmo. Nelle sue rare pause dal lavoro, diventava tremendamente serio nel cimentarsi nei suoi vecchi e nuovi Hobby. La musica, l’elettronica, il golf e il solitario sul PC.
Non era facile da avvicinare. Immerso nel suo ruolo, sempre più autorevole e autoritaria icona di se stesso. Come se mostrare empatia, ne compromettesse l’immagine del monarca assiso sul trono. Battute salaci e nessun diritto di replica. Erano in molti ad esserne terrorizzati.
Dai quattro ai sedici anni di età, mio padre mi ha accompagnato ininterrottamente a scuola tutte le mattine, e prima di me le mie sorelle. Come molti di voi sapranno, vivevamo fuori Roma, in un posto che da più di quarant’anni, egli stesso aveva eletto a suo rifugio impenetrabile. Ogni mattina, una maledetta levataccia alle 5 ante meridiane per raggiungere rispettivamente il posto di lavoro in Via Ravenna 9/bis e le mie scuole nel quartiere Trieste. Io perlopiù dormivo durante il tragitto, Lui perlopiù fumava il sigaro. Era un mutuo scambio cordiale: io ne uscivo puzzando di sigari toscani, lui assordato dal mio russare.
Ma una mattina decise di svegliarmi e mi disse come un fulmine a ciel sereno: “Junho ricorda sei e sarai sempre uno straniero in terra straniera. Lavorerai il doppio per ottenere la metà. E tutto questo per dimostrare di essere uguale agli altri.”
Avevo 14 anni, al mio primo anno di liceo. Era certo un ottimo consiglio ma mi aiutò soprattutto a capirlo. Mio padre aveva dentro un’ansia. Un’ansia di riscatto. Non voleva sembrare l’esotico artista marziale dei film d’azione cinesi. Né tanto meno il folkloristico maestro dagli occhi a mandorla. Gli andava stretto. Lui voleva con tutte le forze essere accettato dall’Italia per i suoi meriti e per farlo ha lavorato come un pazzo, viaggiato per milioni di km, perso il sonno la notte.
Quando per la prima volta, entrò nel Consiglio Nazionale del Coni, una notissima testata giornalistica sportiva pubblicò un piccolo trafiletto, il cui titolo era più o meno così: “la prima volta di un NON Italiano nel Consiglio Nazionale.” L’articolo poi proseguiva: “Park Sun Jae è il primo presidente straniero di una Federazione Sportiva italiana a sedere nel Consiglio Nazionale del Coni”. L’articolo non era né positivo né negativo, era asettico e forse non lo lesse nessuno. Papà quel giorno dissimulò l’amarezza con il suo solito sorriso ironico e commentò: “Questi giornalisti non sanno leggere neanche gli statuti federali. Non sanno che la cittadinanza italiana è requisito essenziale per la presidenza federale??”.
Diversamente, quando si candidò alla Presidenza Mondiale, fu boicottato aspramente dai media coreani come il presidente italiano che voleva derubare la Corea della federazione internazionale. Sbuffava: “Hanno dimenticato che sono nato in Corea??”. Straniero in Italia, straniero in Corea. Lo strano viaggio dell’esule senza più una patria. Cosmopolita, suo malgrado. Lui che l’Italia l’aveva scelta e voluta al punto di metterci radici. Lui così moderno e così antiquato che della Corea si portò dietro solo il Taekwondo, rigettando gli schemi convenzionali e con il passare del tempo quasi tutte le tradizioni.
Era un uomo tutto di un pezzo. Del resto aveva avuto un’infanzia difficile. La guerra, la povertà, tristi storie comuni a molti dei nostri nonni. In Italia ci era arrivato con una borsa speciale per meriti accademici, con una valigia di cartone, piena di belle speranze.
Nonostante le durezza, era a suo modo un padre affettuoso, sempre presente nel momento del bisogno, dei figli e di tutti i familiari. Non diceva mai di no ad una richiesta di aiuto.
Ma il tempo, si sa, è galantuomo. Per la pazienza certosina con la quale ha costruito il suo progetto, mattone dopo mattone e non senza l’aiuto dei suoi preziosi collaboratori, negli ultimi anni si è guardato indietro con tantissima soddisfazione. Ripagato da tutto il Vostro affetto e la Vostra stima, il “Presidente” arriva al capolinea senza alcuna ombra di rimpianto.
Tante esaltanti vittorie, altrettante rovinose sconfitte. E’ caduto sempre in piedi, anzi in volo come nella foto per superare gli ostacoli, sorvolare le bassezze, planare sui successi, aggredire i problemi.
Mio padre, Nostro padre, non ha mai chiesto nulla. Esigentissimo sì, ma per il nostro bene. Lui che non ha mai chiesto nulla, se n’è andato in silenzio prima di essere costretto a chiedere qualcosa. Orgoglioso e forte com’era non avrebbe mai sopportato l’idea di diventare un peso o una polverosa reliquia. Stanco e senza ali, con il cuore spezzato dalla perdita della amata moglie, dopo soli 5 mesi senza di lei, ha chiuso gli occhi per riposare e per la prima volta, per l’unica volta, non ha avuto la forza di rialzarsi.
A papà piaceva la precisione. Mi ha avuto quando aveva 39 anni. Mi lascia nel mio trentanovesimo anno di vita. È arrivato in Italia nel 58 e dopo 58 anni se n’è andato. Va bene cosi.
Va bene così, Piccolo Grande Uomo. Riposati senza più pensare al domani. Hai dato tanto, tutto. Hai preso pochissimo per te stesso. Anzi, una cosa l’hai presa per bene a tua insaputa: un’ingombrante, insostituibile posto nel cuore di migliaia di persone.
Ecco, domenica sera si è spento per sempre il faro che ha illuminato con l’esempio le vite dei suoi tanti figli, naturali, acquisiti, putativi. Per l’ultima volta questi figli ti rendono omaggio alla maniera che hai insegnato a tutti noi:
Charyot – Gyong Ne