Arti marziali e appropriazione culturale.

Eventskarate 10 maggio 2021

Maurizio Di Stefano

Premetto di non credere nel concetto, spesso discusso dagli statunitensi (per tutta una serie di ragioni che non starò qui a valutare), di “appropriazione culturale”,

come del resto non sono nemmeno tanto convinto di lasciarmi trascinare in discussioni riguardanti altre mode attuali che vanno dalla “cultura della cancellazione” al continuo rimarcare alcuni elementi rappresentativi (stereotipi razziali, questioni inerenti la presenza, o meno di inclusività dei rappresentanti di pigmentazioni diverse dal bianco nei media, uso di doppiatori provenienti da un’etnia coerente col personaggio raffigurato ecc.).

Per me, semplicemente, il mondo è bello perché è vario, e tutti dovrebbero avere il diritto di dire la propria e di sentirsi più o meno rappresentati in determinati ambiti.

Risolta, spero, tale primaria questione introduttiva, passo al tema che vorrei trattare.

indossare un pigiama bianco, contare in giapponese o cinese, fare il saluto con l’inchino o con le mani congiunte… sono o meno atti passibili di accusa di “appropriazione culturale”?

Da un lato, sarei tentato di dire di no, proprio perché, come ho detto in apertura, per me il concetto stesso di appropriazione culturale non ha alcun senso, specialmente nel mondo cosmopolita e iper connesso nel quale viviamo, e grazie al quale ho amici di ogni provenienza geografica, culturale e sociale.

E anche un moglie “di colore”, a dirla tutta, poiché, che piaccia o meno, un asiatico ha un colore diverso da un caucasico.

E io per primo ho dedicato la mia vita a studiare il giappone in ogni suo aspetto: lingua, storia, cultura, letteratura, cucina, arti marziali…

MA rifiuto in toto moltissimi elementi della società nipponica. ecco perché vivo in italia e non in giappone.

Non riuscirei mai ad adattarmi a certi modi di vita.

E mia moglie ne è a sua volta fuggita, poiché non voleva nemmeno lei rimanere inquadrata in schemi culturali che non amava (va detto che lei ha fatto un percorso di studi analogo al mio, ma in senso inverso, dedicandosi all’occidente).

Né io né mia moglie, però, rifiutiamo o schifiamo le rispettive culture di provenienza, né quelle di arrivo.

le amiamo entrambe, le curiamo e studiamo entrambe.

e se lei indossa jeans e sneakers, io mi metto il keikogi e agito i nunchaku in aria.

Lei cucina un ottimo ragù e io dei gyoza da paura.

Lei fa un sushi eccezionale e io la pizza.

Ed entrambi parliamo bene le lingue l’uno dell’altra.

Tuttavia, tra i colleghi marzialisti non posso fare a meno di notare, spesso, una tendenza oggettiva a sopravvalutare la cultura giapponese a scapito, in certi casi, perfino della propria identità.

e allora ecco persone che si definiscono “samurai” (vedi il mio post di alcuni giorni fa), che indossano (spesso a sproposito) abiti giapponesi come se fossero dei cosplayer, o addirittura ho conosciuto persone che, nate e cresciute in italia e da famiglia italiana, asserivano di essere shintoiste. salvo non conoscere alcune cose fondamentali dello shinto, per le quali NON POTREBBERO in alcun modo essere shintoisti. e non vi dico nemmeno quali. c’è wikipedia, oggi. ai miei tempi lo ho dovuto studiare su voluminosi libri scritti in varie lingue (cosa per la quale non sarò mai sufficientemente grato al defunto prof. corradini).

Ebbene, in questi casi specifici, trovo un po’ forzata l’identificazione.

Non saremo mai samurai, in primo luogo, perché i samurai storici non esistono più; perché samurai si nasceva e non si diventava; perché per essere samurai dovremmo “servire”, come suggerisce la parola stessa, un qualche padrone donando a lui la nostra vita (lo fareste? sul serio? Dareste la vita per il vostro datore di lavoro? no, perché di quello si tratta…); perché se un tizio qualunque ci urtasse per strada, dovremmo tagliargli la testa in nome del nostro “kirisute gomen” (diritto all’affettare)…

Vado avanti o basta?

Allo stesso modo, non siamo spartani, non siamo gladiatori, non siamo guerrieri maori… e per quanto la cosa mi dispiaccia, io non sono un cimmero. adoro conan il barbaro ma sono basso, bianco di pelle e biondiccio. un aquiloniano, al massimo. giusto se conoscete l’universo di conan il barbaro, altrimenti questa parte non ha alcun senso per voi.

Quindi, tornando al discorso, indossare il pigiamino e dire “hai, ichi ni san shi” è appropriazione culturale, secondo me, nel momento stesso in cui ci identifichiamo con una cultura che non ci appartiene, e lo facciamo… da furbetti.

Eh, sì. dico proprio così.

Perché assumere di una cultura solo le cose fighe, che ci piacciono e ci fanno comodo, rigettando quelle scomode (e la cultura nipponica è zeppa di cose per noi italiani “scomode”, a partire dalla gestione dei rapporti sociali, dei debiti di riconoscenza, del concetto di “nome” e via discorrendo), è un atto disonesto, da furbetti.

Dire “sono un samurai” solo perché si va in palestra con il keikogi, non ha senso da un punto di vista culturale.

Amare il Giappone solo perché si mangia sushi all’ all you can eat e si leggono i manga, è anche peggio, specie se siete stati in Giappone, dovreste capire perché.

Amare un paese va bene, creare “identificazione parziale e priva delle corrette basi culturali” è a parer mio scorretto verso quel paese, verso il proprio e verso soprattutto se stessi.

Quindi, il mio invito è, in termini strettamente culturali, quello allo studio, all’amore sincero per la teoria tanto quanto per la pratica, nel reale rispetto del principio “bunbu ryodo”. senza di questo si è solo appassionati cosplayer, o millantatori, come fin troppo spesso vedo anche in maestroni acclamati che, nel nostro paese, da troppi anni raccontano panzane inascoltabili.

 

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